Turandot, il quinto enigma

Quando, il 29 novembre 1924, Puccini si spense a Bruxelles dopo aver subito un intervento chirurgico per un cancro alla gola, sul suo tavolo di lavoro rimaneva, incompiuta, Turandot.

Un’opera fondamentale non solo nella drammaturgia pucciniana: ne chiude la carriera, ma, ascoltandola, viene da chiedersi dove sarebbe andato il Lucchese se fosse sopravvissuto al male. L’opera ispirata a Carlo Gozzi sembra infatti voler spalancare nuovi orizzonti al teatro italiano. 

Sin dalle prime note, si avverte un’armonia estremamente complessa, irta di dissonanze, nonostante la consueta fluidità melodica. Ma certi agglomerati musicali vanno verso l’espressionismo, a conferma della statura “europea” di Puccini. E d’altra parte il Lucchese aveva conosciuto assai bene la musica di Schoenberg (ne aveva anche recentemente ascoltato il Pierrot lunaire) e seguiva con attenzione quel che accadeva al di fuori dell’Italia. In partitura ci sono annotati riferimenti al Tristano wagneriano a conferma di un respiro musicale che, pur rimanendo nell’ambito del teatro nostrano, mira anche a un “sinfonismo” assai complesso e articolato. Orchestra ampliata notevolmente e sfruttata in tutte le sue risorse con grande dispiego di percussioni. E massiccia coralità: il coro non è qui semplice sfondo, ma componente essenziale al dramma, come mai era accaduto nel teatro pucciniano. Si pensi alla sua presenza, così incisiva, nella scena degli enigmi che è fra le più potenti e affollate del teatro pucciniano.

C’è poi, naturalmente, la componente lirica: basterebbe citare “Nessun dorma” che è fra le melodie più intense di Puccini. Una romanza così bella che ci fa persino sopportare Calaf, uno dei personaggi più insulsi nella galleria tenorile. Liù (non presente in Gozzi) è figura tipicamente pucciniana: la fanciulla fragile che si immola per amore e che rappresenta la vera antagonista della regina di ghiaccio. Del mondo fiabesco sopravvivono i tre paggi (Ping, Pang, Pong), omaggio alle maschere settecentesche che creano divertenti siparietti leggeri nei quali si respira un lontano profumo d’Oriente. Fra tardo Ottocento e primo Novecento, non va dimenticato, l’Oriente è stato spesso “esplorato” dal teatro musicale (pensiamo alla “Lakmè” di Delibes o alla più recente Iris di Mascagni senza dimenticare naturalmente Madama Butterfly). Puccini ha realizzato una propria idea di atmosfera cinese, ricorrendo a temi originali, pur inseriti in un contesto colto europeo.

 

Perchè incompiuta?

La storia della musica è ricca di “incompiute”. Alcune partiture sono rimaste tali per scelta dell’autore (la cosiddetta Incompiuta di Schubert); altre invece per la morte del compositore (il Requiem di Mozart). Il caso della Turandot è anomalo.

Nel dicembre 1923 il terzo atto era ultimato nella stesura per canto e pianoforte fino all’uscita di Liù. E dal febbraio successivo il musicista era passato all’orchestrazione. C’era, dunque, un margine di tempo per assicurare la conclusione che, però, non c’è stata. Puccini ha lasciato un finale abbozzato in 23 fogli.

Turandot, va ricordato, è la quarta di dieci “fiabe teatrali chinesi” scritte tra il 1716 e il 1765 da Carlo Gozzi, in risposta al nuovo teatro di Carlo Goldoni. Vi si ritrova il tipico mondo gozziano colorito e variegato: una mescolanza di fantastico e di quotidiano, il tono alto e il tono basso, il senso della tragedia e quello della commedia o della farsa, l’Oriente con personaggi di sangue reale e i vizi umani incarnati dal comportamento di note e definite maschere.

Nel 1801 Schiller riprese il testo traducendolo in tedesco e puntando sulla “umanizzazione” dei personaggi con una accentuazione del tema amoroso.

Puccini e i suoi librettisti Renato Simoni e Giuseppe Adami sono partiti piuttosto da Schiller che non da Gozzi. Ma la trasformazione da fiaba a commedia realistica ha creato problemi proprio nel finale per la troppo sbrigativa metamorfosi di Turandot, degna più del teatro barocco che di un testo novecentesco.

Turandot è personaggio nuovo nella galleria pucciniana: la sua disumanità si esprime attraverso una vocalità estremizzante che rimanda a grandi personaggi “crudeli” del passato, dalla Elektra straussiana alla Regina della Notte di Mozart.

Il nodo irrisolubile dello sgelamento di Turandot ha la sua causa nell’accentuazione del suo carattere crudele in vista di un maggior contrasto nel finale. In Gozzi, Turandot si innamora del Principe al primo sguardo e mostra già prima della conclusione cedimenti di pietà.

Come è noto il finale fu affidato da Ricordi su indicazione di Toscanini ad Alfano che approntò una prima versione  di 377 battute. Toscanini non ne fu soddisfatto e costrinse il musicista a creare un secondo finale di 268 battute.

Nel 2002 è stato invece Luciano Berio a scrivere un nuovo epilogo. Fra i finali di Alfano e di Berio c’è una differenza sostanziale. Alfano (contemporaneo di Puccini) ha cercato di essere più “pucciniano” del Lucchese stesso. La ripresa melodica di “Nessun dorma”, ad esempio è giustificata dal fatto che lo stesso Puccini aveva chiesto ai suoi librettisti di costruire il coro di esultanza finale sulla medesima metrica della romanza del tenore: evidentemente era sua intenzione citare quella melodia. Berio ha sì fatto riferimento al Lucchese, ma ci ha messo molto di sé. E’ un finale del tutto innovativo, non tanto per i temi che vi circolano e che sono quasi tutti di Puccini, quanto per l’atmosfera marcatamente novecentista. Due le novità principali: l’intermezzo strumentale che dopo il bacio di Calaf a Turandot crea una sospensione temporale; e la conclusione senza clamori, senza osanna, in un graduale spegnersi di voci e di luci, quasi che l’amore fosse un fatto privato fra i due innamorati.

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