Anno Domini 2020 – La resurrezione della morte

Laudato si’, mi’ Signore/ per sora nostra morte corporale,

da la quale nullu homo vivente po’/ skappare

 Il 2020 sta per finire e non lascerà un buon ricordo di sé. Si fa presto a dire un anno di crisi. Il progresso è crisi, e tanto più è  rapido, tanto più è crisi. Crisi  è dal greco krino, separo. Ci si separa da tutto quanto cambia e siccome il progresso è  cambiamento, ci sarà sempre  qualcosa  da cui separarsi, qualcosa che non serve più,  che non ha più valore, che muore. Per cui la crisi, se c’è progresso, è perenne. Tuttavia i nati nel dopoguerra non hanno memoria di un periodo analogo. Cerchiamo  di vederne un solo aspetto fra i tanti, il meno prosaico, forse il più filosofico; senz’altro il meno tecnocratico e il più umano, prendendo spunto dal germoglio della letteratura italiana, la prima opera scritta in volgare da un autore accertato.

Francesco D’Assisi morì nel 1226, dopo aver ricevuto le stigmate. La tradizione dice che compose il “Cantico delle Creature”  (o Cantico di Frate Sole) un paio d’anni prima, quindi quasi esattamente 800 anni fa. La letteratura italiana ha ottocento anni.

Francesco, verso la fine del cantico, loda dio per  la morte, la morte corporale, l’unica ammessa dalla fede, l’unica che permetta la resurrezione che della fede è il pilastro.  San Paolo dice che se non c’è  resurrezione la nostra fede è vana. Ma la resurrezione è possibile soltanto se si muore. Chi non muore non può risorgere e senza resurrezione non c’è redenzione. Quindi anche Gesù, che è dio, per essere redentore deve morire. Ma come è possibile che un dio muoia?

Su questa domanda si è dibattuta per secoli non solo la fede, ma la teologia, la religione  e una certa parte della filosofia   occidentale, specialmente patristica.   E tuttavia il nostro dio,  Gesù, pare sia morto. Un fatto imbarazzante che inquieta il pensiero cristiano da sempre. Persino all’epoca del protocristianesimo  alcune  devianze  di matrice gnostica volevano vedere la morte di Gesù soltanto come immagine,  appunto perchè un dio non può morire. San Francesco invece loda la morte , ma solo come corporale,  quindi pertinente al corpo umano di Gesù. E allora la morte diventa un tramite, un  evento indispensabile alla resurrezione. La morte entra da protagonista nella salvezza. Detto così, sembra un paradosso. Ma nella fede di Francesco non lo è.

Ad un tratto  però viene fuori che anche il dio spirito, quello senza corpo, muore. O bella! E chi lo dice? Lo dice Nietzsche, il filosofo postumo, come lui stesso si definisce; postumo, che verrà (capito) dopo. Quindi  lo pre-dice. Dio è morto.  Subito, però, Nietzsche aggiunge che  l’abbiamo ucciso noi! Non è  lo stigmatizzare una ribellione e tantomeno una professione di ingenuo ateismo, ma  una potente affermazione trascendente. Insieme alla lode francescana  per sora nostra morte corporale, è una travolgente  e inaudita sentenza teologica. Francesco d’Assisi e Nietzsche  hanno rivoluzionato, in tempi  diversi, tutta  la cultura europea, non soltanto la cristianità, ma anche l’arte e la filosofia. Non dimentichiamo che da Francesco è nata la letteratura italiana, Dante, Giotto e tutto quanto ne è seguito anche filosoficamente, fino ed oltre Spinoza; e da Nietzsche come minimo il nichilismo, il simbolismo (attraverso Wagner, in Italia   D’Annunzio e in Francia Baudelaire), il conseguente decadentismo e infine l’esistenzialismo (attraverso Heideggher).  Ma senz’altro dimentico qualcosa (per carità non il nazismo che con Nietzsche non c’entra proprio niente).

Allora Francesco dice,  lodo dio per la morte; ce ne sarebbe già abbastanza per trasalire.  Ma Nietzsche aggiunge, si, ma dio è morto. Sono espressioni di una forza straordinaria.  Se è vero che solo chi muore può risorgere, è altrettanto vero che per morire bisogna essere vivi. Quindi dire  dio è morto non vuol dire  dio non c’è, bensì dio non c’è piùma c’è stato. Per Nietzsche non  è  neppure una semplice constatazione, ma la premessa ad una domanda assai più radicale: potrà l’uomo, che ha ucciso dio, sopravvivere senza di esso? Infatti dio si porta nella tomba tutti i valori che sostiene e a cui l’uomo si appoggia. Non rimane più niente. Nasce il nichilismo. Sorgerà un uomo che sappia andare oltre il nichilismo? Aggiunge Nietzsche. Un uomo oltre? Un oltreuomo? O la morte ha  trionfato sull’uomo prendendosene il dio che era in lui? O invece è stata una vittoria di Pirro e di nichilismo  ha finito per morirne la stessa morte? E’ diventata nulla? E’ stata uccisa dalla sua stessa creatura?

Si potrebbe, a questo punto cercare chi, o che cosa ha sostituito dio  per gli uomini. Ma rimaniamo sui due temi da cui si è partiti: la morte di dio e la sora nostra morte corporale. La sentenza di Nietzsche e la santità di Francesco; un dio che muore (e dunque Umano troppo Umano) da una parte, e una santità incarnata dall’altra, come  incarnata è la divinità  di Gesù. Qui la morte diventa corporale, perchè il resto, l’anima, i valori,  dipendono da un dio che non muore e quindi non muoiono; là  una morte totale, che prende anche dio,  che si trascina nel sepolcro semplicemente tutto. Per Francesco la morte non ha valore assoluto. Per Nietzsche si.

Ma per noi, uomini moderni dell’occidente, imbevuti (anche se spesso inconsapevolmente) di entrambi,  che valore ha? Il valore che le dava Francesco, oppure quello di Nietzsche? O qualcos’altro? Ma il  valore non dipende forse dal rapporto che  ne abbiamo? E dunque, che rapporto abbiamo oggi con la morte? E innanzitutto, dov’è?

Si, certo, la morte c’è. Qualche parente o conoscente è morto a tutti. A qualche funerale ci si va. Ma la sua esperienza quotidiana, diretta, fisica, intima la maggior parte di noi non l’ha mai avuta, non ce l’ha più. Se scorriamo la storia vediamo come la morte in passato fosse una presenza per tutti, nella carne di chiunque. Qualche bambino in famiglia moriva quasi sempre. Qualche donna moriva di parto, in casa, magari alla presenza di altri figli. Si moriva di ogni malattia. Le epidemie avevano mortalità con percentuali a due cifre su popolazioni continentali.  Certe volte si moriva per strada.  I maschi validi andavano in guerra e molti non ne facevano ritorno. Le guerre erano corporali; ci si scannava uno per uno, guardandosi negli occhi. Si faceva spettacolo di esecuzioni capitali nelle pubbliche piazze. Si andava al circo dove i gladiatori e gli animali morivano davvero. Molto banalmente, il pollo, o il coniglio, o l’agnello bisognava ammazzarlo con le proprie mani, per mangiarselo, o per offrirlo a dio, sull’altare; è morte anche questa. Adesso l’agnello  di dio è un’ostia di pane e , per il resto, tutto è pronto, premorto, preconfezionato: la morte al cinema può essere cruenta, ma sappiamo che è finta, un’immagine, come gli gnostici credevano quella di Gesù.  E allora? Allora l’occidente si è illuso che la morte, in fondo, non esista più.  O per lo meno non ci riguardi. Non qui e adesso, non proprio a me. E’ un’immagine vuota. Non è morto solo dio, è morta anche la stessa morte, l’unica certezza del nostro futuro, l’unica necessità. Allora, quando ci capita di vederla, non vogliamo crederci, come non crediamo ai fantasmi. Semplicemente, non è più ammesso di morire. Nemmeno a cent’anni.

O almeno così si è  illuso l’uomo d’occidente,  progressivamente, fino agli ultimi anni, fino ad oggi. La civiltà occidentale ha dimenticato che la morte è l’unica cosa necessaria (ne-cedo, non rinuncio, non faccio a meno), tutta volta  ormai al superfluo ( super-fluere, scorrere sopra ).

Il 2020 sta per finire e non lascerà un buon ricordo di sé perchè la morte  ha  celebrato quest’anno la  propria resurrezione  e si è presa la  rivincita sulla civiltà occidentale. Essa ha rincominciato ad aleggiare per  strada, nei mercati, una volta si sarebbe detto nelle locande o nelle taverne, ora si dice nei ristoranti, nei bar . Non si vede, non ci brucia sulla pelle come in passato, ma si torna ad averne paura, come di uno spettro nella notte. E’ tornata  nelle case, nelle  famiglie anche se  in verità  in modo abbastanza discreto. Un’epidemia con  tassi percentuali di mortalità a frazioni di unità  rispetto alla popolazione globale, come questa che stiamo vivendo, in  qualsiasi epoca passata sarebbe  stata trascurata. Si sarebbe magari detto che è morto  qualche vecchio in più e, in fin dei conti, nemmeno un bambino.   Abbiamo  però imparato che la verità non sono i fatti, ma la comunicazione delle interpretazioni dei fatti. Pertanto la morte non ha  necessità di strafare, basta che si presenti con la giusta strategia mediatica: non  con  numeri nudi e magari altissimi, ma con simboli, con immagini,  raccontata bene, con una adeguata mitologia ( mithos in greco significa racconto) e condita con valori forti; li avevamo dimenticati, ma sono ancora lì, belli pronti, basta guardarsi indietro. Le epidemie, fin dai tempi di Omero, erano segni  dell’ira di dio. Forse dio non si è portato nel sepolcro proprio tutto. Da quasi un anno ogni sera arriva la conta dei decessi, preceduta e seguita da dettagiati racconti e interpretazioni di racconti. Non  eravamo più abituati, anzi non era mai capitato quasi  a nessuno  ancora  vivo ai giorni nostri. Roba da  guerra. Ma le generazioni occidentali viventi, le nostre, non hanno visto guerre.

San Francesco morì dopo aver ricevuto le stigmate. A quei tempi erano un potente simbolo della morte di Gesù la quale così  dava spettacolo di sé. Adesso le stigmate non le riceve più nessuno, e comunque nessuno ci crederebbe.   C’è  bisogno di  spettacoli più presenti, più…vivibili. Etimologicamente spettacolo significa “luogo in cui si guarda”.  Che cosa si guarda oggi? La morte lo sa benissimo ed è lì che fa spettacolo. Alla gente che soccombe ai virus, ha aggiunto alcuni personaggi famosi presi a prestito dal palcoscenico della tecnologia: televisione,  cinema, social, stadi. Peccato che la nera signora i prestiti non li restituisca più. Non è  paragone irriverente, perchè i morti ci sono  e le lacrime anche. Gli uni e le altre sono più veri delle stigmate. O per lo meno alla gente, oggi, parlano meglio.

Il 2020  è stato l’anno della resurrezione della morte. La morte,  di epidemia o   di singoli eroi, torna a fare paura. Quando alza la voce  gli uomini si isolano, si chiudono in casa, si tappano la bocca. Tutto questo fa crisi.

L’occidente piange la sua prima, vera,  globale crisi  dopo la tragedia della guerra. Una crisi  innanzitutto sanitaria e tecnica, forse non ancora economica e finanziaria (lo sarà,  occorrono due anni ancora. Chi dice di non vedere nessuno morire di fame, vive e guarda nello stretto). Tuttavia già etica, umana e culturale e qui sta forse la  sua gola più profonda. Nel bene e nel male rimaniamo uomini, non soltanto numeri che girano dentro un computer. Carl Gusthav Jung scrisse “L’uomo e i suoi simboli”. Forse è l’ora di dire che l’uomo è i suoi simboli.  Forse è il momento di accettare la resurrezione della morte, di cambiare ancora una volta il nostro rapporto con essa e di rivederne la simbologia.  Dicono che dovremo imparare a convivere con il virus. Io penso che si debba reimparare a convivere con la morte. Gli esseri umani lo hanno sempre fatto. Noi lo avevamo dimenticato.

Potremo forse imparare a vivere senza dio,  non senza  di lei.