Buon compleanno, caro Ludwig

Il 16 dicembre 1770 nasceva a Bonn Ludwig van Beethoven. Il 250° anniversario di questo evento è purtroppo passato quasi inosservato: il Covid ha chiuso teatri e cancellato ogni iniziativa culturale. Le tante manifestazioni previste a livello internazionale, dunque, sono rimaste del tutto o quasi irrealizzate. Ricordo le celebrazioni del 1970 per il 200° anniversario della sua nascita. Al Teatro Margherita, un bellissimo ciclo di appuntamenti sinfonici che, allora diciassettenne, seguii con particolare entuasiasmo. Indelebile nella memoria la serata in cui prima ascoltai l’Eroica e poi corsi a casa a vedere Italia-Germani 4-3!

Fra i miti romantici, Beethoven occupò con Johann Sebastian Bach il primo posto. Il Beethoven della Quinta, della Patetica, del Fidelio fu adorato e venerato. Insorse addirittura nei compositori la paura a cimentarsi con le Sinfonie (Brahms e Schumann vi approdarono relativamente tardi) e a non oltrepassare il numero 9: Bruckner numerò le sue partendo dallo 0 per non superare il Maestro.

Ancora oggi, del resto, Beethoven gode presso il pubblico, di una popolarità senza dubbio superiore a quella di ogni altro musicista del ramo strumentale. A tale popolarità ha probabilmente contribuito la sordità del compositore, una malattia che si crederebbe assolutamente inconciliabile col mestiere del musicista.

E fu la malattia (non solo la sordità, come si leggerà più avanti) a forgiare un carattere duro e aggressivo  che traspare continuamente dalla sua musica. Beethoven fu probabilmente il primo compositore che nelle sue opere raccontò se stesso, mescolando l’arte con la vita.

Vale la pena, a questo proposito rileggere il seguente passo dal Testamento di Heilingenstadt redatto il 6 ottobre 1802, una splendida lettera indirizzata (ma mai recapitata) ai suoi fratelli Carl e Johann:

Tali esperienze mi hanno portato sull’orlo della disperazione e poco è mancato che non ponessi fine alla mia vita. La mia arte, soltanto essa mi ha trattenuto. Ah, mi sembrava impossibile abbandonare questo mondo, prima di aver creato tutte quelle opere che sentivo l’imperioso bisogno di comporre.

L’arte come strumento di reazione al destino e come missione etica da portare avanti con sacrificio. L’atteggiamento parrebbe romantico: in realtà Beethoven fu uomo del Settecento, cresciuto nell’Illuminismo. Il principato dell’Elettore di Colonia in cui si trovava Bonn fu uno dei primi stati della Germania a sentire l’influenza dell’illuminismo tedesco.

L’illuminismo era un movimento informato alla ragione e con essa gli adepti cercarono di infrangere il sistema feudale dei privilegi e  di ispirare gli ideali filantropici che animarono la corrente. Illuministi non furono solo gli intellettuali borghesi, ma anche sovrani come Giuseppe II o la stessa Caterina II di Russia.

Beethoven crebbe in una Bonn illuminata nella quale, l’elettore Massimiliano Federico, prima (1770-1780) e  Massimiliano Francesco (fratello di Giuseppe II), poi,  si adoperarono per favorire un armonico sviluppo culturale e sociale.

Il musicista si trovò pertanto in un ambiente vivace al quale partecipavano i suoi più diretti amici: Franz Gerhard Wegeler promosse lo studio dell’anatomia e della ginecologia, Bartholomaus Ludwig Fischenich gli studi giuridici. Inoltre a Bonn gli illuministi non rifiutarono la Chiesa tanto che alcuni frati di particolare levatura furono ammessi a tenere lezioni nella Università, quella Università alla quale nel 1789 si iscrisse lo stesso Beethoven attratto dalle nuove esperienze filosofiche. Fu questa formazione che segnò tutta la vita Beethoven e lo pose da una parte contro le dottrine estremistiche dei rivoluzionari francesi e dall’altra contro gli atteggiamenti più reazionari dell’ambiente viennese dopo l’occupazione francese e ancor più dopo il Congresso.

Beethoven non era assolutamente un egualitario. Si trovò perfettamente a proprio agio con l’aristocrazia viennese quando questa l’accolse con tutti gli onori. Vantava molti amici fra i nobili: il conte Waldstein a Bonn gli fu amico sincero, gli aprì la propria casa e la propria biblioteca e lì Beethoven si appassionò alla lettura di grandi autori come Klopstock, Goethe, ma anche Ossian, Omero, Euripide e soprattutto Schiller. Le correnti utopistiche del XVIII secolo erano incentrate sull’idea del buon principe e Beethoven aderì a questo ideale in Fidelio, nell’Egmont nella sua predilezione per lo Schiller  del Don Carlos. E in questo senso si capisce anche il suo iniziale amore per Napoleone.

Polemizzava, però, con quegli aristocratici che rivendicavano i loro diritti per nascita.

Basta leggere cosa scrisse  nell’ottobre 1806 al principe Karl Lichnowsky:

Quello che è Lei, Principe, lo è per caso e per nascita, quello che sono io, lo sono per me stesso; di principi ce n’è e ce ne saranno ancora migliaia; di Beethoven ce n’è uno solo.

Era insomma un uomo dell’illuminismo e non della rivoluzione francese, ammiratore del dispotismo benevolo alla Giuseppe II e non repubblicano. Detestava la tirannia, ma non era un democratico. Anche il suo atteggiamento dispotico e irascibile nei confronti della servitù non deponeva a suo favore. Cambiava case e servitori con un ritmo incredibile. Diffidava di tutti si considerava circondato da truffatori, per un nulla chiedeva l’intervento della polizia, anche per dirimere questioni familiari.

Il borghese – sosteneva – e a me è capitato di essere uno di costoro, è destinato a rimanere escluso dalle classi superiori della società.

Arrivò a farsi passare per nobile all’epoca della causa per l’affidamento del nipote. Una falsità, naturalmente, ma coerente con il proprio modo di pensare e di sentirsi, certamente al di sopra del “volgo” con il quale non riteneva di avere nulla da spartire.

Ma, tornando al Testamento di Heiligenstadt, il divario con gli altri due classici, Haydn e Mozart, appare enorme. Beethoven, accantonata la figura dell’artigiano, fu un artista nel senso moderno del termine. Rispecchiò il carattere dell’uomo di cultura dell’Ottocento, assetato di curiosità extramusicali, tentato dai miti classici, amante della grande letteratura e delle teorie filosofiche. Fu un profondo moralista, divorò libri, raramente si abbandonò a considerazioni estetiche sulla musica, preferendo soffermarsi su aspetti tecnico-esecutivi.

Il carattere indipendente di Beethoven si riflesse sul suo modo di comporre.  In difficoltà nella vita quotidiana, spesso irritato dalle faccende concrete del vivere comune (non imparò mai a fare le moltiplicazioni!), Beethoven era a proprio agio solo quando si occupava di musica. La sua produzione musicale fu il risultato di un lungo lavoro, di un’appassionata conquista. In lui la musica non “sgorgava” spontanea come si dice per Mozart o per altri musicisti del passato (e non è vero neanche per loro), ma nasceva da uno studio attento, da lunghe meditazioni.

A Bonn Beethoven era stato introdotto nel linguaggio degli affetti di Carl Philip Emanuel Bach da Neefe. Aveva letto il Saggio di Bach sulla tastiera e ne aveva studiato diverse Sonate. Amava Haendel, Bach, quando si occupò della Missa Solemnis studiò anche Palestrina e  lesse testi di musica antica. Fra i contemporanei prediligeva Cherubini:  amava il suo Requiem più di quello di Mozart. Di Mozart adorava il Flauto magico ma detestava Don Giovanni:  «La nostra sacra arte non dovrebbe mai lasciarsi degradare a mettere in risalto un tema tanto scandaloso».

Aveva tempi creativi lunghi, alternava fasi di intensa attività a periodi di apparente stasi. Libero da rigidi obblighi contrattuali, non essendo al servizio di nessuno, non produsse quasi mai su commissione come accadeva per i suoi predecessori; e quando accettava commissioni da nobili o da borghesi, raramente rispettava i tempi di consegna. Vendeva i propri lavori a più editori contemporaneamente, gestiva i propri affari con estrema disinvoltura. Dilatò le proprie opere e calò numericamente la produzione. Non si curò della esecuzione. E la sua musica, per questo, spesso sorprese al suo primo apparire. Gli ultimi Quartetti  lasciarono perplessi non solo gli ascoltatori, ma anche gli esecutori non abituati agli abissi incredibili in cui il musicista era sceso ad esempio con la Fuga op. 133.

Non è un caso che l’ultimo Beethoven sia rimasto estraneo ai contemporanei e ai primi romantici. Chiuso in un proprio mondo, Beethoven aveva sopravanzato di decenni i contemporanei. Ci sarebbero voluti Brahms, Wagner e i tardoromantici per capire la sua estrema genialità.