C’è un punto della postfazione di Sergio Ariotti che avrei voluto trovare in un invito alla lettura dell’ultimo lavoro letterario di Giorgio Ansaldo per Robin Edizioni, “Alla ricerca di un teatro perduto”: si può obliare il Living Theatre? “Di più: è possibile dimenticare quelle avanguardie italiane che dal Living furono sedotte?”
Proprio a questi interrogativi risponde con maestria l’autore e attore genovese, diplomato presso la Scuola di recitazione del Teatro Stabile della Superba, tra i soci fondatori della Cooperativa Teatro della Tosse. Ma, di contro, avrei perso il gusto della scoperta di un saggio che travalica il racconto appassionato pur toccando i classici bottoni delle emozioni: testa, cuore e pancia.
È un testo altamente consigliato a chi frequenta i teatri o ne subisce il fascino, utilissimo alla mia e alle precedenti generazioni che quegli anni non li hanno vissuti sulla pelle, per non perderne l’eredità. Quella stessa che si è riverberata nelle cooperative teatrali, nel teatro di rottura, nel portare in scena autori come Genet o Jarry, nelle scenografie minimali, nel nuovo rapporto col corpo, con lo spazio e, se vogliamo, tra lo stesso palcoscenico e la sala. Una schiera di poltrone divise all’occorrenza dalla ribalta anche da un drammatico filo spinato o circoscritta da un regista fittizio e operatori che filmano la scena a loro volta, il cosiddetto teatro nel teatro.
Esistono due tipi di spettatori ancora oggi: quella parte inerte in attesa di essere stupita, se vogliamo voyeuristica, e l’altra critica (sparuta minoranza, anche sui giornali) che cerca di interpretare e rielaborare per “farsi un’opinione”. Ce lo ricorda anche il finale di “Paradise, Now” con gli attori che tralasciano i “ruoli” precostituiti, per condurre (o cercare di condurre quando l’esperimento non funzioni appieno) gli spettatori sulla strada, perché il teatro trasmuti in vita vera e azione. “Ripercorrere per tutti il Living Theatre è stata un’urgenza- dice Giorgio Ansaldo- in un mondo frastornato da tantissimi eventi, che è portato a dimenticare in fretta.
Il Living Theatre negli anni Sessanta ha recato con sé un’aria di rinnovamento, anche nel linguaggio, nell’allargare l’attrattività del teatro dall’élite alla massa, catapultandolo all’interno della vita della gente con messaggi universali come la pace, più attuali che mai. I teatri non erano più appannaggio della medio-alta borghesia, ma frequentati dalle scuole, dai giovani, dalle persone comuni”. Due sono le figure di riferimento, i “padri costituenti” del Teatro Vivente, Julian Beck e Judith Malina coppia “anarchica” dal 1948 alla morte di lui nel 1985, parte integrante di una tribù dedita alla vita libera ed operosa, unita dal disimpegno verso le regole delle istituzioni, quelle commerciali o i tabù sessuali.
In Europa e in Italia il loro movimento trovò terreno fertile, dapprima con opere come “The Brig”, basate sui problemi sociali essenzialmente americani e poi via via sempre più corali, riguardanti tra gli altri la violenza, il potere e la rivolta. Penso a “Frankenstein” o al successo di “Antigone”, che punta il dito sulla tirannia. “Antigone ha segnato quell’epoca – aggiunge Ansaldo- come punto di equilibrio, di passaggio, dalla grande tragedia greca a questo modo di fare teatro innovativo, prima dell’uscita dal teatro fisico.
Una stagione ancora diversa del Living Theatre che, a mio parere, lo ha avvicinato alla forma dell’happening politico o della performance fino a svaporare, con l’utilizzo di testi autoprodotti”. Chiudo con un cammeo sull’opera: Emma Dante ha raccolto recentemente il seme del Living Theatre nella regia della “Carmen” di Bizet al Teatro della Scala. Quanti altri nella lirica possono dire lo stesso? Termino con l’augurio di trovarne l’ispirazione anche a Genova, in programmazioni più coraggiose.