Sappiamo tutti che è compito delle Università contribuire all’innalzamento del livello delle conoscenze scientifiche e trasmettere il sapere disponibile alle nuove generazioni. Per svolgere a pieno il ruolo trainante dello sviluppo, l’università deve essere disponibile a confrontarsi con la coscienza sociale, vale a dire con l’organizzazione, i modelli di riferimento ed i fini della società. Ad oggi i corsi universitari pù gettonati sono ingegneria, chimica, medicina perchè garantiscono immediatezza di lavoro. Se le facoltà umanistiche in questo momento storico vengono sconsigliate è perchè appunto poco spendibili a livello lavorativo. Ecco perchè un giovane appassionato di letteratura, arte o filosofia solitamente viene invitato da parenti e amici a mettere da parte queste sue passioni a favore di studi che gli consentano di trovare più facilmente un’occupazione. Ma chi dà questi consigli forse sottovaluta che i saperi umanistici oltre ad insegnare il gusto per la bellezza, aiutano l’individuo ad affacciarci al mondo in modo più consapevole e avvicinando il mondo a sè, e studiare il teatro fa un ulteriore passo avanti in questo senso. Il teatro è infatti un veicolo sociale potentissimo, perché diffonde arte, bellezza, cultura, ma soprattutto insegna cos’è la vita, quella vera. Il mondo del teatro è indubbiamente un veicolo di messaggi positivi, che vengono portati avanti da chi ne fa parte. Tutto ciò lo sa benissimo Livia Cavaglieri, docente in Discipline dello Spettacolo presso il Dipartimento di Italianistica, Romanistica, Antichistica Arti e Spettacolo dell’Università degli Studi di Genova, che mercoledì scorso, nell’ambito della lezione di Storia del teatro e dello spettacolo, ha portato in Università come ospiti Elisabetta Pozzi e Andrea Porcheddu, rispettivamente attrice e drammaturgo dello spettacolo Lady Macbeth. Suite per Adelaide Ristori, in scena in questi giorni al Teatro Modena, prodotto dal Teatro Nazionale di Genova. In questo modo chi aveva assistito allo spettacolo con la regia di Davide Livermore, come chi invece non lo aveva ancora visto, è stato in grado di comprendere qualcosa in più dalle voci di chi ha costruito la pièce. Porcheddu, noto critico teatrale, ha raccontato che è stata la prima volta che si è cimentato nella drammaturgia di uno spettacolo, nato per altro su commissione. “Non c’era un testo da cui ripararci, c’era tutto da scrivere, e allora si è pensato di fare uno spettacolo che giocasse su più registri. E’ stato molto divertente. Incombeva la celebrazione della Ristori e dovevamo farla riemergere dai materiali che avevamo a dispozione e che abbiamo trovati al Museo Biblioteca dell’Attore. Livermore è geniale, ma si annoia facilmente, bisognava scrivere qualcosa che lo interessasse, ci voleva un escamotage narrativo, una sorta di teatro postdrammatico. Ebbene assieme ad Elisabetta lo abbiamo trovato: l’attore (in questo caso l’attrice) che fa sè stesso, ma riesce a raccontare Adelaide. Ed ecco che lo spettacolo diventa un omaggio alla Ristori, ma soprattutto all’attrice”.
Elisabetta Pozzi ha raccontato agli studenti che ci sono stati solo 19 giorni di prove in cui Livermore, come nel suo spirito, cercava “il colpo di pistola” che facesse boom sul pubblico e ancora una volta in aiuto è arrivata la tecnologia, che, attenzione, ha sottolineato l’attrice, era già presente ai tempi di Shakespeare. “Si è pensato di allestire uno show anni’70 in cui infilare le notizie della Ristori, che ben pochi conoscono, buttando dentro tutto il materiale come in un frullatore – ha detto la Pozzi – e il contrasto forte era di effetto. Io difendo l’attrice contro il regista che le impone un narrare che non condivide ed evoco la Ristori con costanti interruzioni. Ma quando si entra nel testo quello di Lady Macbeth si apre una bolla. Tutto questo mi ha divertita molto.”
E’ chiaro che per chi ha visto lo spettacolo il prodotto finale lascia qualche perplessità, ma anche in questo senso i protagonisti hanno fornito una spiegazione più che esaustiva: è stata messa in scena la parodia del linguaggio televisivo. Il linguaggio teatrale è comunicazione, ed in un mondo come quello di oggi che si basa oramai solo su immagini istantanee e velocissime non può fare altro che adeguarsi allineandosi a quei parametri estetici.
Che sia un bene o no ci rifacciamo ai versi del Manzoni: ai posteri l’ardua sentenza.