Eichmann: quale forma ha il male?

Quale forma ha il male? È puntiforme, oppure è un flusso? Un blocco unico di orrore, o piuttosto una roccia striata?

Al Teatro Nazionale di Genova, in una sala Duse gremita, davanti a un pubblico tanto giovane quanto attento, ha debuttato giovedì sera “Eichmann. Dove inizia la notte”, testo di Stefano Massini, per la regia di Mauro Avogadro. Repliche: venerdì 8 alle 20.30, sabato 9 alle 19.30, domenica 10 alle 16.

Ottavia Piccolo, capelli grigi corti e sguardo di pietra, è Hannah Arendt. Disseziona il male, usando come bisturi le domande affilate da rivolgere a un uomo, sì, un essere umano come tutti noi, che si chiama Adolf Eichmann e che gestendo cifre e liste, organizzando convogli e trattamenti speciali, ha contribuito a mandare a morte sei milioni di ebrei.

È Paolo Pierobon a interpretare il carnefice, protagonista del processo di Norimberga, attraverso un’interpretazione misurata, che dosa bene i registri, affidando a quello più alto solo i momenti di acme. Non bisogna urlare, del resto, per raccontare questa storia, mirabilmente dipanata da Massini in un racconto essenziale e incisivo che svela opportunamente i suoi dilemmi. Come, del resto, è schematica e completamente scura la scena su cui i due attori si muovono, giocata su almeno cinque livelli e adorna di pochi oggetti: tre sedie di legno chiaro, due attaccapanni, un tavolo nero, una scala sormontata da una poltrona, una sbarra.

In tutto quel nero, spiccano anche a luci spente il simbolo della svastica, sulla giubba della giacca militare che Pierobon-Eichmann è destinato subito a indossare, e il bianco della camicia di Piccolo-Arendt.
Bene e male, dunque? Poli opposti che non si attraggono? Non è così facile.

La Arendt della pièce di Avogadro non si accontenta del ruolo datole dalla storia.
Lei vuole capire “dove comincia, perché comincia il male”, se “c’è un punto preciso, un attimo impercettibile” in cui “dal nulla qualcosa accade”. Così, Hannah studia con curiosità scientifica l’orrore personificato che ha davanti. Poco le importa che Eichmann tenti di discolparsi, di dire che “c’erano altre soluzioni”, si potevano allontanare gli ebrei, anziché ucciderli, mandarli in Madagascar o in “un posto in Polonia”. La Arendt di Ottavia Piccolo morde, vuole risposte. E l’Eichmann di Pierobon è bravo a sfuggirle, come non può fare, invece, la lucertola bloccata sul muro della cella in Argentina, condannata a consumare, prima di morire, la poca aria rimasta in un bicchiere.

L’aguzzino percepisce sé stesso come quel rettile, preso in trappola. Perciò, con ormai più nulla da perdere, non fa sconti agli stilemi della propria debolezza: il disgusto per la morte, che lo porta a vomitare quando vede di persona i primi esseri, due capre, uccisi dal trattamento speciale a base di Zyklon B; l’ambizione fine a sé stessa, motore della Storia e delle storie, quel bisogno infantile di gratificazione, per il quale ha senso deportare decina migliaia di ebrei, sperando in una foto ricordo con le alte sfere del partito; la paura, che stilla dal motto “l’unico onore è non tradire mai”, suggerito da Himmler come un memento mori.

Tutto questo è Adolf Eichmann, piccino, banale, tuttavia non più meschino di tanti oscuri personaggi che punteggiano la nostra quotidianità. Ci sono momenti in cui sembra davvero di conoscerlo: nella sua definizione del potere come il “disporre di una vita non tua”, che allude fin troppo chiaramente alle trappole della manipolazione, o nel suo modo di sminuire il proprio ruolo operativo nella Shoah, infine nella sua passione per l’organizzazione dei campi di lavoro, avulsa, così vorrebbe, dall’atto dell’ammazzare. Ma, soprattutto, l’umanità squallida dell’Eichmann di Pierobon emerge nel suo allargare pateticamente le braccia, tirandosi indietro, quasi strisciando, davanti alla solita frase: “Era tutto già deciso”.

“È il modo che tutti usano per liberarsi di una colpa”, ribatte Arendt, inflessibile. Ma, da questa battuta, la recitazione preziosa di Ottavia Piccolo cambia segno, si vena di malinconia, scopre in fondo al cuore una dolcezza triste. La filosofa rivede sé stessa bambina, gli occhi lucidi pieni di curiosità, intenta a cercare l’inizio delle cose, il momento preciso in cui un processo ha inizio. E la risposta che si dà ci lascia sgomenti, paurosi della nostra stessa paura. Viene voglia di alzarsi, e non solo per applaudire convintamente lo spettacolo. Per dire “mai più”, infatti, bisogna essere in piedi.