Teatro di prosa, in “Pour un oui ou pour un non” trionfo di Orsini e Branciaroli

Tutta colpa delle parole. O, meglio, “di un accento, uno stiramento e una sospensione” incastonati in un commento buttato lì, come centinaia di altri, nelle migliaia di dialoghi che punteggiano un’amicizia. In “Pour un oui ou pour un non”, testo affilato della scrittrice francese Nathalie Sarraute, in scena fino al 14 maggio all’Eleonora Duse di Genova, nel cartellone del Teatro Nazionale, non conta solo il non detto: conta anche, e soprattutto, l’intonazione, quello spazio fuori controllo della voce che rivela sentimenti pericolosi e giudizi taglienti. Un momento di grande teatro.

Orsini, Branciaroli e Pizzi (foto Amati Bacciardi)

I protagonisti e la scena

Protagonisti della pièce, magistralmente diretta da Pierluigi Pizzi, sono Umberto Orsini e Franco Branciaroli. Novantadue anni il regista, 88 e 77 i due attori: i tre creano un’opera unica, che rivela nel suo dispiegarsi un appassionante crescendo drammatico. La scena, apparentemente essenziale, è invece molto studiata: tre librerie bianche, piene di libri bianchi, delimitano lo spazio dell’azione, forse a significare che anche le parole sono bianche, trasparenti, inconsistenti. Al centro del palco spicca un divano rosso, mentre su una parete nera si apre una finestra da cui trapela una luce troppo fredda per essere quella del sole e che cambia intensità, quasi trapelasse da un cielo ingombro di nuvole come quello di Parigi in un pomeriggio d’autunno. Poltrone di design e una scrivania, ingombra di libri, anch’essi bianchi, completano l’arredo, assieme ad una scala nera, appoggiata a uno degli scaffali della libreria, forse la metafora di un’elevazione spirituale impossibile per chi non la desidera.

Storia segreta di un’amicizia

In questa scena si consuma la storia di due amici che misurano a passi la loro distanza. Come spesso accade nella vita quotidiana, è uno dei due, cioè il personaggio interpretato da Branciaroli, ad accorgersi del distacco dell’altro e a chiedere spiegazioni. L’amico, Orsini, ostenta una ritrosia non sincera, nega, minimizza, prima di rivelare la fonte di quel malessere: un commento banale, non appropriato, al suo annuncio di una promozione, proclamato con un’intonazione sospetta, spia di un sentimento oscuro. “Degnazione” scrive Orsini sulla parete che scopriamo essere una lavagna di ardesia, niente a che fare con l’“innocenza” protestata dall’amico nella pronuncia di quella frase, così banale e assieme così astratta da rivelare, al tempo stesso, drammaticità e ironia: “Ah, bene, è così”.

La sentiamo ripetere più volte, quella sequenza di suoni; e ogni volta che viene pronunciata ha una sfumatura diversa, un potenziale nuovo. I due sembrano allontanarsi sempre di più a ogni battuta che, caduta dalle loro labbra, traccia uno scenario psicologico differente. Finché, quando uno dei due ha già il cappotto addosso, segno inequivocabile della resa, la grazia irrompe dalla finestra aperta, sulle parole del poeta Paul Verlaine: “Mon Dieu, mon Dieu, la vie est là”. È come se la frattura si ricomponesse, come se “la vita che irradia da una siepe, da un tetto” riportasse i due amici a un desiderio di pace. Ma è solo un attimo. Altre crepe si aprono, sempre più profonde e irreparabili, fra due personalità diverse eppure uguali, unite, osserva con cinismo il testo, dai “segni di una perfetta amicizia”.

I due protagonisti della pièce

Un momento di grande teatro

Con gli applausi alla fine di uno spettacolo da vedere assolutamente, resta la certezza di aver assistito a qualcosa di unico: a una recitazione profonda, che dà vita a parole pesate prima di essere scritte. A un momento di grande teatro.