Grief&Beauty di Milo Rau, amare la vita attraverso la morte

L’orologio a pendola sul fondo della scena è identico a quello che scandisce un tempo invisibile alle spalle del volto sorridente di Johanna B., proiettato su un grande schermo.
A volte gli orologi si muovono in sincrono, altre volte sembrano perdere il tempo e allontanarsi, così come la realtà dell’attimo presente e quella scolpita dal passato danzano, sfiorandosi o separandosi.
“Grief & Beauty”, il dolore e la bellezza nel titolo dello spettacolo di Milo Rau, in scena alla Sala Modena del Teatro Nazionale di Genova fino al 14 ottobre, fanno la stessa cosa: si avvicinano e si distanziano, l’uno nell’altra, tanto che risulta difficile, alla fine, capire dove stiano esattamente la pena e il sollievo, dove l’ombra della paura e il miraggio della gioia. Tutto fa parte della stessa realtà, la nostra, se possibile, in cui è sempre così naturale e così difficile muoversi. E con la stessa fluidità, che nasce dal superamento di una rigidità esistenziale, si muovono sul palco e in video i protagonisti di un’opera che finalmente offre allo spettatore qualcosa di autentico su cui riflettere, oltre a immagini impresse a fuoco nella memoria.

La scena, allestita a sipario aperto, consta di tre ambienti domestici ricostruiti con puntuale realismo: una stanza da bagno, con una doccia dotata di sgabello; un salotto in stile, in gran parte occupato da un letto per la degenza e punteggiato di piccoli oggetti, buone cose di pessimo gusto, tra gufi impagliati e disegni incorniciati; una cucina moderna, un tavolo coperto di bottiglie e bicchieri e circondato da due sedie di stile industriale. Sulla destra, un operatore riprende i personaggi, restituendone i primi piani – ma sarebbe meglio chiamarli “persone” – mentre raccontano le loro storie di dolore e bellezza: Arne De Tremerie, Anne Deylgat, Princesse Isatu Hassan Bangura, Gustaaf Smans, tutti attori e attrici, aprono il cuore attraverso diversi monologhi chirurgici, in cui niente può essere tolto o aggiunto. Al centro, un grande video restituisce le immagini di Johanna B. e racconta, con poche parole e molte immagini, il suo percorso verso una buona notte senza risveglio. A sinistra, la violoncellista Clémence Clarysse partecipa all’azione, accompagnando con suoni ora cupi, ora vellutati, il naturale dipanarsi delle vicende.

È questo, il suono, un elemento molto importante in “Grief&Beauty”. Se la morte è una foglia che cade senza fare rumore, il dolore è invece un urlo di notte dai marciapiedi di una strada anonima, nel cuore della Sierra Leone, e soprattutto il grido acutissimo di un allarme antiincendio che sovrasta le preghiere durante il funerale di un bambino e che si impianta nell’anima di una madre. Cos’è, invece, la bellezza? A immagini idilliache e concrete, come l’odore del caffè, viene accostato il calore di un corpo che lentamente svanisce dalle viscere di un animale amato. Il passo di danza imparato in una balera per soldati, impresso nella carne e nelle ossa. La bellezza è guardare fuori da una finestra e veder cantare la chioma di un albero con la voce di mille uccelli. È il buio che scende dietro le palpebre, quando Johanna B. si addormenta per l’ultima volta, ed è il nostro coraggio, di spettatori, di guardare in faccia quel volto quasi sorridente che ha appena lasciato andare lo spirito della vita.

È questa, in fin dei conti, la notizia: la morte è bella, «non c’è niente di più bello», dice Johanna B. che, come si racconta, la sua vita l’ha vissuta appieno, cantando nei cori e ballando in un piccolo circolo. La morte è vera, in un mondo di bugie e di finzioni: pura, binaria, definitiva, vera. Inchinarsi davanti a lei, o forse danzare, passarle attraverso per superare il dolore che, invece – è questa l’altra notizia – appartiene alla vita, ne è intrecciato, al suo saliscendi fatto di gioia e tristezza. “Grief&Beauty” aiuta a vedere la morte come equilibrio fra i poli opposti di un dolore, fra le sue rive limacciose e la vita, come una grazia di cui spesso non ci si rende abbastanza conto: come l’ululato di un branco di lupi, pur sembrando triste, è «pieno di forza e speranza», così anche rendere omaggio alla morte ci rende pieni di vita. Forse per la prima volta.