In un’epoca di vacche magre, con molti teatri ancora in crisi dopo la chiusura per pandemia, il Teatro Nazionale di Genova va controcorrente e vara un progetto colossale per importanza culturale, per impegno realizzativo, per il numero delle maestranze tecniche e degli attori coinvolti.
Ieri sera, dunque, una platea affollatissima ha applaudito al Teatro Ivo Chiesa Agamennone prima parte della trilogia Orestea di Eschilo diretta da Davide Livermore. Costruita sulla intelligente traduzione di Walter Lapini, Orestea è nata da una collaborazione fra il Teatro Nazionale e l’INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico): nel 2021 e 2022 ha debuttato al Teatro Greco di Siracusa e ora arriva in un Teatro chiuso con una revisione degli spazi e un adattamento scenico particolarmente importante. Il pubblico martedì prossimo potrà vedere le due parti successive della trilogia (Coefore e Eumenidi) mentre domenica sarà possibile assistere alla rappresentazione dell’intera trilogia in una lunga, ma certamente affascinante maratona. Dopo Genova lo spettacolo sarà al Teatro Carignano di Torino.
Orestea si propone come una poderosa Sinfonia mahleriana in tre colossali tempi nei quali i grandi temi accennati nel primo sono ripresi, ampliati e svolti nei due successivi con un crescendo di tensione, di modi e di toni fino alla esplosione finale. Eschilo parla di giustizia, di odio e di vendetta, argomenti che appaiono ancora oggi di tragica attualità.
Presentando lo spettacolo in conferenza stampa, alcuni giorni fa, Livermore aveva sottolineato che la tragedia non è prosa, ma tragedia. In effetti Eschilo, Sofocle e Euripide hanno creato uno spettacolo onnicomprensivo che racchiude nel suo interno tutte le forme di spettacolo teatrale della nostra cultura occidentale: c’è la prosa, ma c’è anche la musica, in un connubio particolarmente stretto (e del resto poesia e musica nella cultura greca avevano radici comuni) e non manca la danza. Da lì, come è noto, è nato il melodramma, da lì sono scaturite le disquisizioni teoriche e filosofiche di Gluck nel Settecento e di Wagner in pieno romanticismo.
Date le premesse, Livermore ha costruito in Agamennone un grande spettacolo in buon equilibrio fra le esigenze di una lettura filologica e la necessità di una visione tecnologicamente moderna dei mezzi comunicativi. Ne è sortito una rappresentazione di forte impatto visivo e di indubbio fascino narrativo.
Il palcoscenico è sovrastato da una gigantesca sfera ininterrottamente rotante in cui prendono corpo immagini diverse: la terra e il cielo, il volo di una farfalla e quello cupo di uccelli neri, il rossore delle fiamme che annunciano la caduta di Troia, ma anche il rosso del sangue che scorre inevitabile per la vendetta di Clitennestra. Ai lati della sfera, lo sfondo è un grande specchio in cui si riflette la platea, trasformata così in un coro muto aggiunto a quello previsto da Eschilo. Due tastiere (bravissimi i musici, Diego Mingotta e Stefania Visalli) contribuiscono alla partitura musicale (firmata da Mario Conte) : sovrasta Bach (Johann Sebastian è, come dire, un “usato sicuro”, funziona sempre in qualsiasi contesto lo si metta), ma accanto a lui emergono suoni diversificati, ora violenti accordi dissonanti, ora frequenze elettroniche, ora strappi nervosi della cordiera di uno dei pianoforti. Una cornice sonora che si lega efficacemente alla narrazione e scandisce ritmicamente l’evolversi degli eventi.
I costumi si riferiscono ai primi decenni del Novecento, una vecchia auto d’epoca è collocata di fianco alla sfera, inutilizzata (lo sarà probabilmente nelle successive parti della trilogia). I vecchi argivi sono anziani militari su sedie a rotelle, il coro veste abiti da infermieri o badanti degli argivi stessi. Una ambientazione in realtà atemporale a ribadire la eternità del messaggio di Eschilo.
In questo contesto si muove un cast di prim’ordine che Livermore fa agire, in maniera diversificata: voci ora amplificate con effetti d’eco, ora portate su tessiture acute, in una gamma di espressione che va dal tono sommesso all’urlo. Una regia tecnicamente ineccepibile che lavora sul singolo personaggio (ognuno ha un proprio “carattere” dato dalla scelta timbrica, dalla postura, dalla gestualità) e sulla coralità in un gioco di partecipazione collettiva perfettamente rodato.
Ne viene fuori una lettura cupa e coinvolgente in una visione quasi sacrale del teatro.
Laura Marinoni è una grande Clitennestra, Linda Gennari è bravissima nella parte di Cassandra. Ma vanno lodati tutti gli attori, da Sax Nicosia (Agamennone) a Stefano Santospago (Egisto), da Gaia Aprea (Corifea) a Maria Grazia Solano (Sentinella), da Olivia Manescalchi (messaggero) al coro (Maria Laila Fernandez, Alice Giroldini, Marcello Gravina, Turi Moricca, Valentina Virando).