MOTUS LAEVUS

Un bello spunto per gustarsi al meglio questo nuovo, notevole disco dell’ensemble concepito qualche anno fa da Edmondo Romano, multifiatista attento alla composizione, all’elemento improvvisativo, al richiamo diretto e indiretto alle note di tradizione orale è mettersi di fronte una cartina geografica che nel dettaglio illustri il Mediterraneo. Se gettate uno sguardo a partire dall’Anatolia, da lì transitate per Turchia e Grecia e via via risalite i Balcani, fino a far perno sulla Slovenia, oggi parte dell’Europa politica, ma da sempre gran collettore di storie  mediorientali incistate nel cuore della Mitteleuropa, sarete a buon punto. Quell’abbraccio geografico di poli, usanze, stili musicali da ognuno rivendicati come propri ed esclusivi, spesso anche con aggressività, e in  realtà mediati fra gli uni e gli altri incessantemente è la principale fonte d’ispirazione per i Motus Laevus. In altre parole quella che Mauro Pagani quattro decenni fa chiamava “la faglia di Sant’Andrea della musica”, l’ampia zona appena citata, caratterizzata da massiccio utilizzo di ritmi dispari, vocalizzazioni e esecuzioni strumentali con ampio ricorso a microtoni difficilmente annottabili su partiture occidentali, ed altri elementi ancora è il cuore del progetto. Proseguendo dunque quella ricerca che potremmo definire “etno- mediterranea”, che a Genova si può far risalire almeno agli anni ‘90 del secolo scorso, con gruppi a vario modo coinvolti in queste complesse estetiche: Orchestra Baillm, Cadira, Trascendental, Rebis, Arancia Balkanica, ed infine gli Avarta, che videro in azione proprio Edmondo Romano con la panoplia dei suoi fiati. In Motus Laevus (“moto contrario”: come la rotazione eseguita nelle danze dei dervisci rotanti sufi) oltre a Romano troviamo il tocco gentile e articolato sulla tastiera id Tina Omerzo, pianista slovena da un quarto di secolo all’ombra della Lanterna, ma  ben memore – anche da vocalist – dei repertori di tradizione del suo Paese e della ex Jugoslavia tutta in genere, e Luca Falomi, il più giovane del trio, chitarrista a proprio agio nella composizione, nell’improvvisazione di tipo jazzistico, nelle musiche popolari rivedute e arricchite di magnifiche, inventive fioriture. Gli ospiti sono Alessandro Turchet dal Friuli e Max Trabucco dal Veneto, i due compagni d’avventure sonore di Falomi in un altro progetto raccordabile a questo, Naviganti e sognatori. Sifr sta per “cifra” “zero”, “cerchio”, una parola araba polisemantica che è anche radice del nostro “Zefiro”. Splendida ripresa sonora del disco in uno degli studi più ambiti della Penisola, Artesuoni di Cavalicco, Udine, dove lavora Stefano Amerio ( lì nascono molti dei dischi Ecm, spesso ricordati come esempio di ripresa sonora perfetta), ma è la scaletta che avvince e convince si dall’iniziale Nihavent Longa: il modello originale sono quelle canzoni turche da danza composte tra fine Ottocento e primi del Novecento, in cui chi scriveva (qui la compositrice  Kemani Kevser) imitava l’ariosa mobilità delle melodie zingare rumene. Un caso dunque di mediazione culturale al quadrato, o forse al cubo, qui. Troverete poi una struggente aria macedone, molto nota in tutta la ex Jugoslavia, Jovana Jovanke, e un episodio di particolare, malinconia delicatezza (La tredicesima ora) scritto da Falomi durante il lockdown. Edmondo romano, ben memore dei suoi progetti di incontro con le note della tradizione turca, approfondite anche in un recente progetto discografico, propone tra l’altro la briosissima Kucuk Kus. Un grande disco, vitale e, per certi versi, fortunatamente imprendibile.