Il 22 giugno di Galileo e la sua resistenza

Questo breve racconto è tratto dal romanzo Il lungo volo dell’ulivo di Massimo Donati edizioni Phasar 2022 centrato su la Toscana e la sua struttura culturale profonda attraverso la presentazione di alcuni personaggi storici che hanno espresso l’amore per la bellezza e la necessità di difendere la libertà individuale e delle comunità.

Il tempo, nel XVII secolo, volava e, per stargli dietro bisognava correre velocissimi, mentre quelli lenti si vedevano sorpassati senza rimedio. Gli ulivi: “cosa sarebbe la Toscana senza gli ulivi?” anche quelli vicini a Firenze, restavano tranquillamente fermi, ma volavano nel tempo anche se nella direzione opposta e, tenuto conto della lunghezza della loro vita, continuarono a volare a lungo ed ebbero la possibilità di vedere ed ascoltare molti degli eventi che si susseguirono nei secoli successivi alle talee che avevano prodotto le loro prime radici. Tenuto conto del loro rapporto col tempo, dopo un batter dei loro occhi sentirono avvicinarsi alle radici un gruppo di gente che, sicuramente veniva da lontano perché parlava un idioma un po’ diverso da quello de’ fiorentini: si trattava, infatti di una dozzina di pisani che, in tutta evidenza, stavano accompagnando un tipo che era tutt’altro che tranquillo: parlava con concitazione, agitando alcuni fogli di carta davanti agli altri, cercando di convincerli che lì stava una meravigliosa verità checché ne pensassero quelli là “che volevano essere i padroni del pensiero di tutti”

“Galileo, dovresti essere un po’ più cauto, perché a questi la verità interessa meno di zero. Loro si interessano solo a come le idee che circolano possano far comodo o possano dar fastidio ai loro interessi: che frega a loro del resto? Hanno il potere di fare tutto quello che vogliono e tu non hai nessuna possibilità di sopravvivere ai loro movimenti: ora ci vuole cautela, ecco quel che ci vuole.”

“Il punto non è la cautela, questi vogliono che io mi fermi, o, peggio, che io affermi di essere nell’errore, che tutti i miei studi mi abbiano condotto a risultati falsi, che il mio telescopio sia uno strumento del diavolo, che poi sarei io perché sono io che l’ho costruito. Per loro io sono, davvero, il diavolo ed esisto per il solo scopo di portar tutti all’inferno. Se solo sapessi dov’è ce li porterei sì! Ma non tutti: solo loro: quelli che se lo meritano. Datemi subito una fiamma che accendo tutto e costruisco gli inferi.”

Circolò un po’ di preoccupazione fra gli ulivi perché: “per tagliar loro il tronco, o per incendiarlo seppur maestoso, ci voleva un attimo.”  La tensione si allontanò dagli alberi quando, camminando fra le piante, si avvicinò uno sconosciuto che aveva tutta l’intenzione di mostrare uno scritto che teneva in mano. Si rivolse direttamente allo scienziato:

“Oh Galileo! L’Inquisizione ha deciso di occuparsi di te e dei movimenti della terra e del sole: davanti a te hai due vie, scappa, vai lontano e nasconditi, oppure affrontali: in questo caso tutti sanno come andrebbe a finire: la condanna sarebbe sicura. Se ti sono cari la tua pelle e i tuoi studi parti subito e non farti più vedere perché questi hanno la memoria lunga: non si scordano di niente e per sempre, o per tutto il tempo che a lor conviene.”

Dopo un paio di settimane il processo del sant’Uffizio cominciò e l’interrogatorio fu duro ma ordinato, chiaro così come chiara fu la sentenza: che fu consegnata allo scienziato: tutto era molto semplice: “essendo che tu, Galileo, figlio del Galilei fiorentino, dell’età tua di anni settanta, fosti denunziato del 1615 in questo sant’Uffizio, che tenevi come vera la falsa dottrina da alcuni insegnata ch’il sole sia il centro del mondo e imobile e che la terra si muova anco di moto diurno ch’avevi discepoli a’ quali insegnavi la medesima dottrina: che il sole sia il centro del mondo e imobile di moto locale, è proposizione assurda e falsa in filosofia e formalmente eretica per essere espressamente contraria alla Sacra Scrittura: che la terra non sia al centro del mondo né imobile, ma che si muova eziandio di moto diurno, è parimente proposizione assurda e falsa e acciocché questo tuo grave e pernicioso errore e trasgressione non resti del tutto impunito ordiniamo che per pubblico editto sia proibito il libro “de’ dialoghi” di Galileo Galilei. Ti condanniamo al carcere formale in questo Sant’Uffizio, ad arbitrio nostro, e così diciamo, pronunziamo sentenziamo, dichiariamo.”

La condanna per eresia poteva prevedere ulteriori punizioni come il rogo: che quest’ultimo fosse l’obiettivo reale era la convinzione di moltissimi, una fiamma e via!

Fu così che la mattina del 22 giugno del 1633, Galilei fu costretto a pronunciare una pubblica abiura, inginocchiato davanti ai cardinali inquisitori:

“Io Galileo, figlio di Galileo di Fiorenza, dell’età d’anni 70, costituto personalmente in giudizio e inginocchiato avanti di voi eminentissimi e reverendissimi cardinali (…..) sono stato dichiarato dal Sant’Uffizio come veementemente sospettato di eresia, cioè d’aver tenuto e creduto che il sole sia il centro del mondo e imobile di moto locale e che la terra non sia centro e che si muova (…) con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto i suddetti errori e eresie e generalmente ogni qualunque altro errore, eresia e setta contrari alla Santa Chiesa e giuro che per l’avvenire non dirò mai più né asserirò in voce o in scritto cose per le quali possa aver di me simil sospizione (…)

Io, Galileo Galilei, sodetto ho abiurato, giurato, promesso e mi sono obbligato come sopra.”

L’alternativa era stata molto chiara, per comprendere la quale il Galilei non ebbe bisogno del telescopio: la sua libertà o le fiamme. Lui pensò che erano secoli che in molti si erano trovati in quella situazione, l’arte era diventata scienza, ma, in sostanza non era cambiato niente.  La libertà si era infranta lì di fronte al potere e lui fu sicuro che il comportamento che faceva, di alcuni potenti, dei suoi nemici era quello: il seguire liberamente il proprio pensiero, sì neanche le proprie azioni ma era sufficiente il solo pensare ed il desiderio di dimostrare l’idea scientifica. Era sicuro che ribellarsi sarebbe stato giusto ma scelse l’abiura: non avrebbe avuto nessun senso agire nel giusto e perdere la vita in un modo crudele, scelto per invitare i rei al pentimento, alla resa, alla ricerca del perdono dei potenti invincibili. Se fosse stato certo che la scelta delle fiamme sarebbe stata una sconfitta terribile per i suoi assassini forse avrebbe difeso i risultati delle sue ricerche scientifiche, ma non ebbe un’autostima proporzionale all’importanza delle sue ricerche e di quanto queste avrebbero influenzato tutti gli studi successivi fino ai giorni nostri. Quelli che avevano lavorato con lui negli ultimi anni erano certi dell’imponenza di quanto da lui prodotto e pensarono che qualunque decisione avrebbe preso, fra il rogo e la resa, per il mondo intero non sarebbe cambiato alcunché perché tutti loro sarebbero rimasti indenni da ogni tentativo di cancellazione e, per esserne sicuri, raccolsero tutto il materiale e lo nascosero in un posto sicurissimo.

Galileo, dopo la resa, chiuse il suo telescopio in cantina, smise di guardare il cielo e, a chi cercava di parlargli della luna rispondeva: “luna, che?” E cominciò ad interessarsi di locande e dei loro prodotti per conoscere i quali, capì che sarebbe stato necessario farne una grande esperienza. Fu pervaso da una insolita tristezza che ingrigì tutto quello che lo circondava e nessuno, per anni, poté affermare di aver visto un sorriso sul suo bel viso. Quel che in molti sentirono fu una frase brevissima, ripetuta ma non troppo spesso: “eppur si move.” Così il mondo perse il valore dell’uomo che fu convinto per tutta la sua vita, che la terra non fosse immobile nell’universo. E lui perse, solo, la libertà che gli fu strappata via dalle mani di quelli che leggevano molto ma un solo libro, fino ad impararlo a memoria, forse non capendoci niente: di sicuro, moltissimi lo pensarono, e furono quelli che si mantennero lontani da quegli ambienti e cominciarono a toccarsi l’inguine ogni volta che ne incrociavano un membro.

Galileo approfittò del tempo a disposizione per scrivere, alle poche persone di cui si fidava, un bel numero di lettere nelle quali argomentava le scoperte frutto di anni di osservazione, alla ricerca della struttura reale dell’universo, inclusi anche alcuni particolari che confermavano quelli che lui sapeva essere i principi fondamentali cui era arrivato, come l’esistenza dei quattro satelliti di Giove, che chiamò Medicei, che insieme al pianeta non ruotavano attorno alla terra. Come un maestro infaticabile continuò a studiare e, cautamente, ad insegnare tutto quello che sapeva nell’ambito che amava più di ogni altra cosa eccetto la sua vita: almeno da quando aveva deciso di evitare il percorso di Tommaso Moro. Questo fu un altro modo per mettere in sicurezza le sue scoperte: quelle lettere sarebbero rimaste da qualche parte, non sarebbe stato possibile rintracciarle tutte per poi bruciarle. Moltissimi gliene furono grati a lungo nei secoli successivi, quando tutti conobbero il suo nome e moltissimi seppero anche quello che era riuscito a fare grazie al metodo che lui applicava con convinzione: osservare la realtà con strumenti affidabili per dedurne, direttamente, il comportamento, per poi verificare ancora ed incrociare le informazioni, tutto fuori dall’influenza di opinioni cresciute in ambiti non scientifici nei quali il suo metodo non poteva essere applicato, pena l’indebolimento di tutta la fortezza, costruita in tempi lunghissimi con grande capacità e qualche sofferenza ma non troppa.

Lui non fu consapevole di aver disegnato la strada che sarebbe stata seguita nella ricerca scientifica nei secoli che seguirono, quando gli scienziati, spesso, amarono chiamarsi galileiani. In realtà la sua influenza fu più vasta e coinvolse, anche, comportamenti umani molto più ampi: per le basi dell’ingegneria si partì dall’osservazione dei comportamenti dei materiali e del ragionevole funzionamento dei componenti costruiti con essi. Per avere la certezza di non commettere errori non accettabili si sperimentò il funzionamento dei sottosistemi ed, infine, del sistema completo. Solo a quel punto si passò all’applicazione degli algoritmi, cioè alle leggi generali delle forze e dei movimenti. Ed anch’essi furono sperimentati. Fra quelli che conoscevano il Galilei, chi, nella zona di Pisa, ebbe a che fare con sistemi da costruire, con fenomeni naturali da capire, o, persino, con terreni da coltivare avendo a disposizione nuovi semi o talee mai viste, non ebbe alcuna incertezza nel volersi definire allievo della scuola galileiana e nel comportarsi di conseguenza o quasi: forse alcuni preferirono confermare le loro decisioni con piccole benedizioni che, di sicuro, non sarebbero state dannose. Certo, nessuno di questi seguì i dettami di preti o vescovi, ma la loro situazione era diventata chiaramente molto più semplice, infatti non sentirono neanche parlare di Inquisizione e videro crescere le loro piante e maturare i frutti che avrebbero consentito alle famiglie di sopravvivere.

Anche in quel periodo gli anni e i secoli passarono, ma non tanto velocemente, fino ad arrivare agli inizi del novecento quando, nei territori attorno a Firenze anche se non vicini, nelle colline, verdi quasi tutto l’anno perché solcate dai fiumi in perenne corsa per farsi la strada fino al mare distante decine di chilometri, migliaia di contadini coltivavano le terre con alterno successo, riuscendo a fatica ad evitare la povertà estrema e la fame per le famiglie. Solo pochi erano proprietari del terreno che quasi li sfamava e, comunque, si trattava di piccoli appezzamenti, di solito estesi non più di quattro/cinque mila metri quadrati: vi coltivavano orti, ulivi e qualche centinaio di metri di filari di vigna, poi peschi, susini, fichi e altri frutti: così producevano olio e vino per i loro bisogni e anche un po’ di più, mentre vendevano quel che avanzava di olio e di vino la frutta e la verdura per mantenersi panni e scarpe addosso, molti allevavano qualche animale; mucche asini e muli, rarissimamente cavalli perché quelli erano roba per signori I rammendi erano vistosi ma, se ben fatti, rendevano accettabili la fatica e anche la miseria: “i mi’ omini lavorano dalla mattina presto alla sera tardi.” E: ”le mi’ donne ci sanno fa’ con l’ago, in cucina e a lavora’ nel campo, un smettono mai di lavora’ nemmeno dieci minuti, finché c’è luce.”  Il ché significava che le femmine di casa lavoravano il doppio dei maschi, ma questa fu un’informazione che venne tenuta nascosta per moltissimi anni. Siccome il Galilei era stato pisano, in quelle famiglie c’era un grande orgoglio per essere anche essi pisani e da quei fatti erano passati più di trecento anni ma la memoria era fresca e precisa. Naturalmente ai bimbi delle elementari si raccontava la storia di Galileo e, quando Qualcuno accennava al fatto che non doveva essere stato molto coraggioso per via dell’abiura, non veniva perdonato e si tendeva ad isolarlo: si faceva fatica a considerarlo un paesano: da lì in poi per quel Qualcuno diventava più complicato anche far la spesa nelle botteghe: spesso, quando si avvicinava, venivano nascosti nel retro i prodotti che si sapeva avrebbe comprato: il sant’Uffizio della comunità si era pronunciato: c’era poco da scherzare.