Nel panorama internazionale il Belcea Quartet è oggi senza dubbio fra le formazioni d’archi più solide e autorevoli. Formato da Corina Belcea e Suyeon Kang (violini), Krzysztof Chorzelski (viola) e Antoine Lederlin (violoncello), il Quartetto affianca a indiscutibili qualità dei singoli, una coesione straordinaria: intonazione perfetta e soprattutto una incredibile gamma di dinamiche con pianissimi incredibili che sembrerebbero prodotti non da quattro, ma da un unico strumento, tale è l’equilibrio fonico ottenuto.
Magnifiche doti, dunque, che il pubblico della Giovine Orchestra Genovese ha potuto apprezzare ieri sera nel consueto appuntamento del lunedì al Carlo Felice.
Programma splendido che ha accostato due autori apparentemente lontani ma in qualche modo legati da un filo: Beethoven e Bartok. Entrambi hanno lasciato un segno indelebile nella storia del quartetto, entrambi hanno coltivato questa forma nell’arco della loro intera attività artistica. Infine, senza gli ultimi Quartetti del primo, non sarebbe immaginabile la produzione del secondo: così come la prima Sinfonia di Brahms fu definita la “Decima” a sottolineare il debito nei confronti di Beethoven, così i sei Quartetti di Bartok prendono le mosse da quel che l’artista di Bonn ha lasciato nella sua ultima incredibile stagione creativa.
Il Belcea, dunque, ha proposto tre partiture che si collocano a distanza di diversi anni l’una dalle altre. A iniziare, il Quartetto op. 18 n.4 che risale alla prima fase creativa di Beethoven e che lo stesso autore definì successivamente una “porcheria”. Se è vero che il lavoro può non reggere il confronto con altri numeri dell’op. 18, il giudizio di Beethoven è sin troppo severo: basterebbe la leggerezza dell’Andante scherzoso ad assolvere l’intera composizione, restituita dal Belcea con varietà di colori e fraseggio impeccabile.
Poi un balzo di oltre un secolo ed ecco il Quartetto n.1 di Bartok che inserisce un linguaggio aggressivo in un contesto architettonico debitore appunto dell’esperienza beethoveniana. L’ultimo tempo, in particolare, è di una difficoltà estrema per l’intricato dialogo fra i quattro strumenti e gli esecutori ne hanno assicurato una lettura di rara trasparenza.
Infine il Beethoven estremo con il primo degli ultimi Quartetti, l’op. 127, animato da una maturità di scrittura stupefacente (si pensi in particolare al suggestivo “Adagio ma non troppo e molto cantabile” a sottolineare l’espansione lirica del pensiero beethoveniano) : qui come in precedenza si è ammirata la classe interpretativa dei quattro protagonisti che al termine sono stati calorosamente e meritatamente applauditi.