“Dobbiamo scandalosamente dichiarare che nella rappresentazione di un’opera d’arte consideriamo regia e scenografia elementi d’interesse secondario”. Lo affermava polemicamente Eugenio Montale in un suo articolo del 1955 per il “Corriere d’informazione”. L’affermazione del grande poeta, condivisibile, è oggi più che mai d’attualità. E lo è a maggior ragione dopo aver visto “Bianca e Fernando”, ieri sera al Carlo Felice.
L’opera di Bellini è riapparsa sul nostro palcoscenico lirico per la terza volta nella storia, dopo gli allestimenti del 1828 (per l’inaugurazione del vecchio Carlo felice) e del 1978 (per i 150 anni del Teatro del Barabino).
Per questa nuova ripresa, va detto, si è fatta un’operazione di tutto rispetto con un lavoro a monte (non ancora terminato da parte della studiosa incaricata, Graziella Seminara) di ripristino filologico del manoscritto originario del 1828.
Un puzzle finalizzato a dare una veste il più possibile completa a una partitura minore che alterna momenti felici a molte pagine nelle quali il giovane compositore sembra ancora alla ricerca di una propria cifra stilistica: fra gli aspetti più interessanti si segnala la splendida aria “Sorgi o padre” cantata da Bianca nel secondo atto, degna del miglior Bellini nel suo lirismo incantatorio. Si è dunque riascoltata l’Ouverture orchestrata da De Meo, si sono risentiti alcuni frammenti che nel 1978 non erano ancora stati recuperati. Un lavoro di paziente ricostruzione che va certamente lodato, ma al quale ha fatto riscontro una lettura registica e scenica di segno totalmente opposto.
Filologia musicale da una parte, sovrainterpetazione nella sezione visiva, dall’altra.
Hugo de Ana ha puntato sul bianco e nero, ha impiantato un imponente fondale formato da tanti quadrati luminosi (una rete? delle sbarre?), con una sezione circolare centrale che si apriva per mostrare una semisfera in cui era collocato il coro in tuta bianca con mascherina, ha disseminato il palcoscenico di oggetti (mappamondi, un modellino del sistema solare, un pianoforte a coda rovesciato, corde, reti) ai quali ha evidentemente attribuito un particolare valore simbolico. Ma il risultato, al di là di una indubbia eleganza visiva, è stato uno spettacolo statico, distraente e soprattutto, squilibrato rispetto alle intenzioni musicali.
La parte musicale era affidata alla bacchetta esperta di Donato Renzetti. “Nell’eseguire le musiche di Vincenzo Bellini – ha scritto nel programma di sala lo stesso Renzetti – il direttore d’orchestra deve risolvere diversi problemi, in primis la strumentazione. Nelle sue opere essa non è fine a se stessa ma a sostegno dei cantanti, gli strumenti molte volte raddoppiano la melodia a discapito di una sonorità eccessiva….”. Per evitare questa insidia occorre mantenere leggerezza e dinamiche controllate, ma questo spesso non riesce e ieri sono stati diversi gli episodi di squilibrio sonoro. C’è poi bisogno di eleganza, di respiro nelle frasi per consentire al melodismo belliniano di liberarsi in tutta la sua forza espansiva. Una lettura insomma, con diverse illuminazioni, ma anche con qualche parte controversa e che probabilmente ha pure risentito della distanza fra la compagine corale e la buca orchestrale.
Per quanto riguarda le voci, Salome Jicia è stata una convincente Bianca per autorevolezza vocale e intensità espressiva. Una prova, la sua assai lodevole in una parte di notevole impegno. Ostica è anche la scrittura che Bellini ha riservato a Fernando: il tenore Giorgio Misseri l’ha affrontata con piglio, ma anche con qualche difficoltà e la necessità di forzare gli acuti ne ha compromesso l’eleganza espositiva. Elena Belfiore ha risolto con personalità la parte di Viscardo, Nicola Ulivieri ha proposto un Filippo autorevole, Alessio Cacciamani ha dato voce calda e appassionata al vecchio Carlo.