Fra i miti romantici, Beethoven ha occupato con Johann Sebastian Bach il primo posto. Il Beethoven della Quinta, della Patetica, del Fidelio è stato adorato e venerato. Insorse addirittura nei compositori la paura a cimentarsi con le Sinfonie (Brahms e Schumann vi approdarono relativamente tardi) e a non oltrepassare il numero 9: Bruckner numerò le sue partendo dallo 0 per non superare il Maestro.
Ancora oggi, del resto, Beethoven gode presso il pubblico, di una popolarità senza dubbio superiore a quella di ogni altro musicista del ramo strumentale.
E di questa popolarità si è avuta ulteriore conferma ieri sera al Carlo Felice, affollatissimo come mai quest’anno per il primo incontro con il ciclo dedicato appunto al grande compositore di Bonn.
Un mito, si diceva. In effetti Beethoven ha unito la genialità indiscutibile di un compositore che sapeva vedere lontano, andare oltre, anticipare i tempi (si pensi alla sua ultima produzione, capita solo dai tardoromantici) a una personalità indipendente, al di fuori di ogni schema e soprattutto, capace di fare un tutt’uno fra vita e arte.
La sua popolarità che, come si è detto, rimane intatta ancora oggi fa sì che affrontarne il repertorio sinfonico sia facile per certi aspetti, tremendamente difficile per altri.
Facile perché si ottiene immediata risposta dal pubblico (e appunto ieri sera lo si è potuto constatare), difficile perché si rischia di dover fare i conti con centinaia di interpretazioni dal vivo, discografiche, storiche e più recenti. Difficile, ancora, perché si tratta di un repertorio ormai di routine per le orchestre e quindi più arduo da rimettere in discussione.
Ieri sul podio dell’Orchestra del Carlo Felice è salito Hartmut Haenchen, direttore di notevole esperienza e di indubbie capacità che ha dimostrato come sia possibile offrire un Beethoven “nuovo” e di straordinario fascino.
Il programma si è aperto con l’Ouverture dal Fidelio l’ultima delle quattro composte da Beethoven per la sua amata e odiata unica esperienza teatrale, costatagli, come è noto tanta fatica. Pagina spigliata, vibrante che Haenchen ha diretto con trasporto e l’orchestra ha eseguito con puntualità mostrando sin da subito un evidente feeling con la bacchetta.
Poi la Quarta Sinfonia, un’oasi di serenità che il compositore si ritagliò fra la Terza e la Quinta. Haenchen l’ha affrontata con eleganza, evidenziando la morbida cantabilità dei legni, ottenendo una ammirevole coesione fra le sezioni.
Infine, la Quinta che è in assoluto la partitura più popolare e amata del compositore. Quella assunta inequivocabilmente come l’emblema stesso della sua personalità: “Il destino che batte alla porta” avrebbe detto lo stesso compositore del tema d’apertura, secondo una testimonianza del suo segretario Schindler.
Quel tema essenziale e apparentemente banale diventa il perno di una colossale partitura, torna di continuo a compattare il discorso, viene richiamato ora ai bassi ora in tutta l’orchestra mostrando la genialità dell’autore nel saper ottenere da un materiale di base volutamente “semplice” un’opera sinfonica di travolgente carica drammatica.
E’ noto che nella Quinta si individua una sorta di percorso catartico: si apre con la tonalità più tragica, quella di do minore e si chiude con quella più solare, il do maggiore. Come dire: attraverso il dolore, l’artista trova il suo riscatto. Questo percorso di resurrezione ha il suo momento culminante nel passaggio dal terzo al quarto movimento: per la prima volta Beethoven unisce due tempi e lo fa attraverso un lungo pedale che porta a scaricare la tensione accumulata nell’accordo di do maggiore sul quale parte il finale. Ebbene Haenchen costruisce questo passaggio con una straordinaria intelligenza, creando davvero una escalation emozionale: un crescendo articolato in maniera perfetta. E poi, al momento in cui si libera il tema trionfante (anche questo potrebbe risultare “banale” senza il geniale pedale precedente) del finale, Haenchen lo fa rallentandolo in maniera quasi innaturale, come se si volesse contemplare la serenità raggiunta . Viene alla mente il finale di Fidelio e forse se ne ricorderà anche Rossini nel finale del Guglielmo Tell.
Una lettura insomma di grande pregio che il pubblico ha mostrato di gradire con applausi interminabili e meritati.
In platea, va detto, molti giovani e molti neofiti (non solo giovanissimi): un bel segnale, ma sarebbe bene “istruirli” spiegando loro che l’applauso fra un movimento e l’altro della sinfonia interrompe la magia dell’esecuzione e andrebbe proprio evitato.