La classe di Haenchen

C’era un filo conduttore che legava le tre partiture proposte ieri sera nel concerto sinfonico diretto al Carlo Felice dall’ottimo Hartmut Haenchen: l’accettazione della morte, in una visione laica di rassegnazione al proprio destino. Una rassegnazione che si traduce musicalmente in partiture mosse certamente da slanci drammatici, ma dominati essenzialmente da un lirismo teso, pacato, nobile.

In questa ottica ci è parsa una felice idea quella di far seguire alle due composizioni di Brahms (Nänie op. 82 e Schicksalslied op. 54, entrambe per coro e orchestra, la prima su  versi di Schiller, la seconda su testo di Hoderlin) la prima esecuzione italiana di Mors aeterna, lavoro molto interessante del compositore contemporaneo olandese Willem Jeths, presente in sala:  un’opera dalla scrittura non avanguardista, assai ben orchestrata, di forte impatto emotivo, ben accolta dal folto pubblico presente, finalmente, in sala.

Hartmut Haenchen è un direttore tedesco di solida preparazione e di profonda intelligenza interpretativa. Lo avevamo già apprezzato negli anni scorsi e in particolare ricordiamo il suo bel concerto brahmsiano del 2018. Brahms è certamente nelle sue corde e lo ha dimostrato anche ieri  garantendo delle due partiture presentate una lettura animata da una straordinaria ricchezza di colori e di dinamiche in una perfetta coesione fra voci e strumentale (bene il coro preparato da  Claudio Marino Moretti).

Nella seconda parte del concerto, altre atmosfere, con l’Ottava di Beethoven, partitura che se non è fra le più popolari del grande compositore di Bonn, certamente si colloca in un momento fondamentale della sua produzione. Prima del passaggio alla straordinaria, ultima fase creativa, Beethoven si volge al passato, come aveva fatto Mozart con La clemenza di Tito (ritorno all’opera seria italiana abbandonata dopo Idomeneo) o come avrebbe fatto, di lì a qualche anno, Rossini prima di emigrare a Parigi con Semiramide (idealmente legata, anche per la derivazione letteraria da Voltaire al giovanile Tancredi): ritorno indietro che non significa in nessuno dei tre autori  semplice recupero di stilemi già collaudati o superati, ma rivisitazione degli stessi alla luce di una ben più evidente maturità compositiva.

Nella Ottava, ultimo appuntamento sinfonico solo strumentale, prima della grande innovazione della Nona, Beethoven non solo recupera le atmosfere del Minuetto, ma punta su una leggerezza, una trasparenza di linee ben lontana dall’euforia travolgente della Settima.

In questo precario equilibrio fra passato, presente e futuro sta la difficoltà di lettura dell’Ottava che Haenchen ha affrontato con raffinato gusto, eleganza e cantabilità.

Un bel concerto davvero.