Fania Fenelon era una cantante francese di buon successo, ben conosciuta a Parigi. Catturata dai nazisti la ragazza finì nel lager di Auschwitz-Birkenau dove Alma Maria Rosè, violinista, figlia di Arnold, a sua volta violinista e fondatore del Quartetto Rosè e nipote di Gustav Mahler, anche lei arrestata in Francia, su ordine del capitano delle SS Alois Brunner aveva creato un’orchestra femminile per intrattenere gli ufficiali nazisti. Fania sapeva suonare il pianoforte, conosceva l‘armonia e fu ingaggiata nel complesso diventando il braccio destro, pur nella diversità dei caratteri, della Rosè. Di quella orchestra sopravvisse la sola Fenelon che ha poi raccontato quella incredibile storia fatta di stenti, di paure, ma attraverso la musica alimentata dalla speranza di una salvezza.
La storia di Fanelon ha costituito il tema dello splendido spettacolo organizzato ieri pomeriggio al Museo Nazionale dell’Emigrazione Italiana (la Commenda) in collaborazione con gli Amici di Paganini.
Il testo Musica per forza porta la firma di Lorenza Codignola, regista, attrice, per molti anni docente di arte scenica al Conservarorio “Paganini”: con lei coinvolto anche il giovane e splendido Quartetto Nannerl formato da Yesenia Vicentini e Filippo Taccogna, violini, Teresa Valenza, viola e Carola Puppo, violoncello.
Di forte impatto, intanto, l’aspetto visivo. La sala scelta nella Commenda è molto raccolta e lo spazio scenico è stato ricavato fra strutture incombenti che bene rendevano la drammaticità del luogo. Efficaci anche i vestiti che richiamavano quelli delle detenute nel lager.
La Codignola dunque ha raccontato in prima persona la storia di Fania, le sue paure, il suo attaccarsi alla musica come ancora di salvezza, la sua disperazione nel sentire le sirene o vedere il continuo fumo uscire dai camini, il suo amore-odio per la Rosè così ostinatamente attaccata alla ricerca della qualità artistica da diventare insensibile alla disperazione delle sue orchestrali, infine, la gioia davanti alle piccole cose, a 4 zollette di zucchero regalate da un gerarca dopo un concerto.
La narrazione condotta con una partecipazione emotiva crescente dall’artista che ha usato una molteplicità di sfumature vocali e di intonazione per rendere le differenti sensazioni della protagonista, si è magnificamente integrata con la musica. Il Quartetto ha scelto il n.8 op. 110 che Sostakovic scrisse nel 1960 dedicandolo alle vittime del nazismo e del fascismo. E’ forse con Un sopravvissuto di Varsavia di Schoenberg l’opera più drammatica e violenta dedicata alla denuncia delle vittime dei totalitarismi. Il Quartetto ne ha offerto una interpretazione eccellente per partecipazione emotiva, affiatamento, coesione nel suono e nelle dinamiche.
Uno spettacolo, insomma, ammirevole nelle sue componenti e organizzato perfettamente nel susseguirsi delle parole ai suoni e viceversa in una narrazione poetico-musicale di rara efficacia.
Il pubblico era stato invitato a non applaudire né all’inizio né alla fine, ma solo al rientro degli interpreti a conclusione dello spettacolo. A quel punto l’applauso è stato davvero caloroso e meritato.
Quel silenzio assordante che ha reso ancor più potente la duplice narrazione fa tornare alla mente un aneddoto riferito proprio alla prima esecuzione dell’opera di Sostakovic da parte del Quartetto Borodin nel 1960 nella casa del compositore. Scrisse a questo proposito il critico musicale Erik Smith: “Il Quartetto Borodin ha interpretato questo lavoro per il compositore nella sua casa di Mosca, sperando nelle sue critiche. Ma Šostakovič, sopraffatto da questa bellissima realizzazione dei suoi sentimenti più personali, immerse la testa tra le mani e pianse. Quando finirono di suonare, i quattro musicisti impacchettarono silenziosamente i loro strumenti e uscirono dalla stanza.” A volte il silenzio, carico di emotività, dice più delle parole o degli applausi. Spettacolo, in conclusione, da portare in giro per la sua bellezza e per il suo significato etico.