Al Carlo Felice romantico Werther, mito dell’amore senza tempo

Malinconia al posto di distruzione, romanticismo in luogo del delirio più nero. E’ l’opera che si sostituisce al dramma, sapiente chiave di lettura del tenore Jean François  Borras, protagonista di Werther del  Teatro Carlo Felice che lo rende di grande attrattiva e piacevolezza. Se ne legge infatti con facilità la partitura raffinatissima di Jules Massenet grazie all’Orchestra del Teatro Carlo Felice guidata magistralmente da Donato Renzetti nella coproduzione tra il Teatro genovese e il Teatro di Zagabria. Pieni voti a tutte le voci, in particolare quelle dei protagonisti, accese di lirismo, indugianti nel lato zuccherino dell’amore ancor prima di calarsi nelle tinte fosche della tragedia, sicuramente di più facile resa, di grande effetto, rispetto al primo e al secondo atto che avrebbero potuto dare difficoltà di tenuta con altri cast.

Ben delineato il fraseggio, nette quando occorre le sezioni orchestrali che danno il meglio nell’interludio tra il terzo e quarto atto. Il Werther di Genova conquista per le emozioni e per la profondità della delusione d’amore martellante, prima psicologica e poi fisica arrivando al languore disperato della scena finale con il contraltare delle voci bianche che sfilano con le fioche luci delle candele a rischiarare il buio della notte e a non far morire con l’amato almeno la speranza del ricordo.

Acuti pieni, rotondi e tono particolarmente espressivo per la cantante  Caterina Piva, in scena Charlotte, che convince soprattutto nella lettura delle carte scritte di pugno da Werther sino all’aria delle lacrime. La sorella minore, Hélène Carpentier, ha il classico registro adamantino con tessitura ampia e timbro marcato; piace nelle scene civettuole, nella presenza scenica e nel pieno rispetto del ruolo.

La regia e scenografia su curatela di Dante Ferretti, già firma cinematografica con Scorsese e Fellini,  è azzeccatissima, dai particolari legati all’infanzia incorniciati da una pagoda da sogno, sino all’accogliente salotto di casa dove tutto rimane uguale nonostante i mesi che passano. Tutto è fermo, sospeso, come l’amore di Werther o come il corpo steso a terra del finale risvegliato solo dalle carezze e dal sospirato bacio dell’amata. A sottolineare i punti cruciali le luci di Daniele Nannuzzi, dall’albero di Natale, simbolo di tutta l’opera, tanto più nella scena  del quarto atto del garage in cui incombe grigio, ma secondo cromie differenti. Tante le libertà  rispetto all’originale di Goethe, a partire da Charlotte folle d’amore, un eccesso però che vive in contrappeso  anche nei freni inibitori di una rigida educazione e dell’onore prima da promessa e poi da sposa. La promessa, fatta alla madre morente, diventa gabbia insormontabile già nel primo atto… E’  il Werther dell’amore senza tempo e senza freno che rimane in eterno proprio perché ha una fine nel mondo terreno. Lunghi e meritati applausi sul finale, con un apprezzamento particolare al coro delle voci bianche diretto del maestro Gino Tanasini. Un’opera da vedere (prossime repliche venerdì 24 novembre alle 20 e domenica 26 ore 15).