“Io mi dico è stato meglio lasciarci/ che non esserci mai incontrati”. Furono queste le ultime parole di Fabrizio De Andrè (tratte da “Giugno 73”) a risuonare sul piazzale davanti alla Basilica di Nostra Signora dell’Assunta, il giorno del suo funerale, venticinque anni fa. Faber se ne è andato l’11 gennaio 1999 ma l’amore dei suoi fans non si è minimamente attenuato in questo quarto di secolo, anzi il suo mito è cresciuto ulteriormente, nuove generazioni si sono aggiunte alle vecchie nel culto di un artista che continua a “dire” qualcosa di autentico nella turbolenta società di oggi.
Artista colto, squisitamente genovese nella sua riservatezza, conscio delle sue qualità ma anche dei suoi limiti, De Andrè se non è stato “il padre” di tutti i cantautori (ruolo che preferirei attribuire a Domenico Modugno) certamente ha affrontato tematiche e impostato architetture compositive che ne hanno fatto un apripista. Non è stato un poeta: “Benedetto Croce – ha ricordato Faber in una intervista – diceva che fino all’età di diciotto anni tutti scrivono poesie, poi rimangono a scriverle due categorie di persone: i poeti e i cretini. Quindi io, precauzionalmente, preferirei considerarmi un cantautore”. Tuttavia ha scritto testi letterariamente pregevoli, intrisi di messaggi di carattere universale che ne fanno un prezioso veicolo di idee e di riflessione. Originale la sua capacità di lavorare in team, individuando, con l’abilità di un vero talent scout, giovani collaboratori, oggi artisti di primissimo piano: uno su tutti, Nicola Piovani.
Ultimo trovatore della storia, è partito da ballate di sapore medioevale (le grottesche disavventure di Re Carlo, la dolcezza di Marinella, la bontà dello sfortunato Piero) trovando una valida spalla nell’indimenticabile Vittorio Centanaro, per poi affrontare temi universali in concept album di forte impatto emotivo, a partire da Tutti morimmo a stento. Ha celebrato il Cristo uomo nella splendida Buona novella, ha esplorato la letteratura americana con Non al denaro non all’amore né al cielo, ha rivissuto la tragedia del rapimento suo e di Dori Ghezzi in L’Indiano.
Sul piano musicale, Fabrizio, voce unica, calda, profonda, chitarrista eccellente, ha attinto con intelligenza al passato (dalla musica popolare a quella colta con citazioni evidenti da Telemann, Vivaldi, Cajkovskij ecc.), ha usato un’armonia non complessa, si è appoggiato per gli arrangiamenti su musicisti di valore (basta citare Gian Piero Reverberi), ha avuto intuizioni geniali: pensiamo a Creuza de mä uno strepitoso viaggio nel Mediterraneo fra colori, timbri, culture, linguaggi differenti eppure per certi aspetti affini.
Un cantautore, insomma, che pur non sentendosi in alcun modo un “messaggero” di verità, ha messo al servizio dell’arte una curiosità intellettuale e una capacità di analisi e di prospettiva critica uniche che ne hanno fatto un acuto cantore del suo tempo e non solo. Lo si continua ad amare perché certe canzoni, certi versi appaiono senza tempo. E in un momento difficile come quello che stiamo attraversando, tornano alla mente le parole di un grande amico di Faber, Don Balletto: “In quale Dio credeva Fabrizio? Non lo so… Certamente credeva in un Dio buono, giusto, che si prendesse a cuore tutti i suoi figli. Un Dio compassionevole, rivolto principalmente ai più deboli. Fabrizio ha mostrato nella Buona novella di aver colto alcuni punti essenziali del Vangelo. Ci ha mostrato una grande attenzione per i più sfortunati, ci ha fatto capire che bisogna guardare con tenerezza intensa i deboli. In fondo tutto Fabrizio si raccoglie in quei due versi così belli e così conosciuti: Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”.