“Lui non suona mai per dirti guarda come sono bravo, ma per per farti capire come è bella questa musica”. Lo aveva dichiarato anni fa Salvatore Accardo parlando di Maurizio Pollini. Il grande pianista ci ha lasciato questa mattina. Aveva 82 anni, era malato da tempo, tanto da essere costretto a sospendere la sua ultima tournée. Al Carlo Felice avrebbe dovuto esibirsi l’11 dicembre scorso, ospite della Giovine Orchestra Genovese, Società con la quale vantava un lungo rapporto di amicizia e collaboratore: l’ultima sua apparizione risale al 2019 e in quell’occasione, il giorno successivo al recital al Carlo Felice, a Palazzo Ducale aveva incontrato gli studenti genovesi.
Nato a Milano nel 1942, figlio dell’architetto razionalista Gino Pollini e della musicista Renata Melotti (sorella dello scultore Fausto Melotti),diplomatosi nel Conservatorio della sua città, nel 1960, a soli 18 anni, Pollini aveva trionfato al Concorso “Chopin” di Varsavia. Ad ascoltarlo, in quell’occasione, anche il grande Arthur Rubinstein che stupito dall’abilità del giovane talento italiano disse: «Quel ragazzo suona meglio di tutti noi».
Si può ricordare che nel programma allora presentato figuravano due degli Studi dell’op.25, i nn.10 e 11 dell’op. 25: «Chiunque – ha scritto Piero Rattalino, ben noto storico del pianoforte nel suo libro dedicato ai grandi pianisti – vedendo nel programma del 1960 quali Studi aveva scelto il diciottenne Maurizio Pollini poteva capire che il ragazzo di Milano era un serio candidato o al manicomio o alla vittoria…». Pollini non andò in manicomio e iniziò invece una strepitosa carriera che lo ha portato a definire nel tempo un proprio originale stile esecutivo: «Il problema interpretativo – aveva dichiarato alcuni anni fa in una sua apparizione a “Che tempo che fa” (tuttora splendida oasi culturale nel deserto televisivo odierno) – è alquanto complesso. Abbiamo un’idea di un autore espressa in una partitura. Dobbiamo capire la sua idea senza forzatamente essere testuali. La fedeltà all’idea non significa fedeltà al segno, ma all’intenzione. E nella musica la libertà è grande”.
Negli anni successivi al trionfo di Varsavia, Pollini ha imboccato strade diverse: Beethoven (la sua lettura delle ultime Sonate costituisce uno dei vertici dell’interpretazione beethoveniana del secondo Novecento, ma non si possono neppure dimenticare le letture dei Concerti con la direzione del grande amico, Claudio Abbado), Mozart, Chopin (il cofanetto dei Notturni di Chopin incisi per la Deutsche Grammophon nel 2007 è entrato nelle hit parade internazionali fra i CD più venduti), alcuni romantici; e poi il mondo contemporaneo, da Berg a Nono, al quale era legato da profonda amicizia. «In realtà – aveva dichiarato recentemente – l’onestà vuole che io dica che nel mio repertorio la musica contemporanea ha avuto una parte abbastanza modesta. Però è stata importantissima per la mia formazione, sia musicale che intellettuale».
Nella sua citata apparizione televisiva, rispondendo a Fabio Fazio sulle difficoltà maggiori che si incontrano ad apprezzare, nel contemporaneo, la musica rispetto all’arte visiva, Pollini aveva osservato: “Pesano la difficoltà del linguaggio e la assenza di promozione. E poi un quadro lo si può continuare a guardare per un tempo indefinito, la musica scorre. Tuttavia diffondere e capire la produzione di oggi è basilare; il rischio è che nelle nostre sale da concerti, nei nostri teatri, manchi l’aggancio all’attualità”.
Intellettuale profondo, Pollini è sempre stato un artista politicamente impegnato (una scelta, del resto, irrinunciabile quando si ha un rapporto quotidiano con la cultura): “I sogni – aveva dichiarato recentemente – sono indispensabili per gli individui, così come l’arte lo è per la società. Se il governo taglia i fondi per la cultura, taglia quello che vivifica l’intera società”.
Roberto Iovino