“I Creditori” di Strindberg, un urlo spietato

In una terra di nessuno isolata nel profondo Nord dell’anima, una stanza d’albergo dove il realismo si coagula in simboli, una donna, il suo ex e il marito in carica si ritrovano a combattere una guerra spietata. Come nelle guerre ciascuno si sente creditore dell’altro, l’esigenza di autoaffermazione e di possesso ha il sopravvento sull’amore e sulla gelosia  e il territorio conteso, lei , alla fine (o fin dall’inizio?) mette in campo un cinismo  e una spregiudicatezza che è una rivendicazione di autonomia.

“I creditori” di Strindberg, in scena al Duse di Genova in una  coproduzione del teatro Nazionale di Genova e del Metastasio di Prato,  parla al pubblico con accenti di spietata attualità , offre molte possibilità di identificazione, anche se i lati del triangolo sono quelli intellettualmente elitari di un mondo di artisti e, soprattutto,  non cede agli stereotipi. Sembra comunicarci un invito nei confronti dell’autore: guardiamolo finalmente come Strindberg,  sottraiamolo al destino degli eterni paragoni che, da spettatori, facciamo sempre di fronte ai suoi drammi, più di quanto ci capiti con altri autori che, a fine Ottocento, hanno dato il via alla drammaturgia contemporanea.  In un film di Bergman quanto potremo trovare  di quello che ci viene proposto da lui per il palcoscenico? Il lavoro che stiamo vedendo appartiene al suo momento realistico piuttosto che espressionista- onirico?

Nello scandagliare i rapporti di coppia, quanto è autobiografico e,  in base alle sue esperienze personali,  misogino?  Nel gioco  che arriva al massacro vogliamo riconoscergli un’originalità superiore a quella dell’ “arrabbiatura” anglosassone e nordamericana,  una spietatezza che non ha bisogno dell’alcol per venir fuori?

Porsi questi interrogativi naturalmente è fondamentale per capirlo e gustarlo meglio che non guardandolo con occhio naif  ma a patto che la preoccupazione di sbrogliare la matassa non sovrasti l’impatto emotivo. La regia di  Veronica Cruciani scongiura questo pericolo e gioca la sua carta vincente cavalcandone le contraddizioni con la complicità di tre attori  qui in sintonia con uno dei suoi propositi estetici cardine: capaci immergersi nei personaggi e la tempo stesso di “guardarli” ma senza evocare i luoghi comuni sullo straniamento.

Un momento dello spettacolo (Foto Federico Pitto)

 

Graziano Piazza, nella parte di  Gustav,  il primo marito di Tecla, irrompe in scena  presentandosi a Adolf con le sembianze di amico, in realtà per instillargli un veleno che lo spiazzi come artista e come uomo e distrugga il rapporto che, dopo l’abbandono, gli ha causato fallimenti e infelicità. E’ un genio del male e accentua questa sua natura con una gamma di toni e una gestualità che si impone anche come sottolineatura della sua natura di incubo. Adolf , già depresso e reso ancora più insicuro, trova in Rosario Lisma accenti di deformazione grottesca che richiamano l’Urlo di Munch. Nella parte di Tecla, scrittrice lanciata,  soffocata  e contesa da due diversi pigmalioni , Viola Graziosi plasma il personaggio con sensibilità, intelligenza, qualche volta avvinghiante protervia,   La sua interpretazione suggerisce che, nella storia della drammaturgia contemporanea, meriterebbe la stessa attenzione, notorietà e discussioni di quelle riservata alla Nora di “Casa di bambola” e che può esserle al tempo stesso affiancata e contrapposta (da un contesto del tutto esterno così come dall’interno le è stata contrapposta la vocazione per la famiglia dell’amica nel dramma di Ibsen ).

Alla prima meritati applausi per gli interpreti, la regista,  le scene di Anna Varaldo che cura anche le scene e costumi di Veronica Carretta. Drammaturgia sonora di John Cascone luci di Gianni e tutto lo staff che ha lavorato dietro le quinte.