La buona novella, una sacra rappresentazione

“Il Dio in cui nutro speranza non ha mai suggerito ai suoi seguaci i sentimenti della calunnia, dell’odio, della vendetta, sfociati in orribili guerre, in devastanti persecuzioni, in una spaventosa varietà di tormenti fisici e morali. Il Dio in cui nonostante tutto continuo a sperare è un’entità al di sopra delle parti, delle fazioni, delle ipocrite preci collettive; un Dio che dovrebbe sostituirsi alla cosiddetta giustizia terrena in cui non nutro alcuna fiducia, alla stessa maniera in cui non la nutriva Gesù, il più grande filosofo dell’amore che donna riuscì mai a mettere al mondo”.

Lo sosteneva Fabrizio De Andrè che con il tema religioso si è misurato in più di un’occasione. Basta ricordare quella splendida canzone che è Il pescatore e, soprattutto, La buona novella, a mio parere la sua opera migliore dopo Creuza de ma.

Il lavoro di Faber è stato riproposto ieri sera al Teatro Ivo Chiesa in una bella versione drammaturgica di Giorgio Gallione con gli arrangiamenti musicali di Paolo Silvestri.

La buona novella scritta con Roberto Danè e Giampiero Reverberi nacque in un momento particolare di tensioni sociali e contestazioni giovanili in cui il tema di Gesù era al centro di altri lavori importanti, dal Vangelo di Pier Paolo Pasolini a Jesus Christ superstar, il capolavoro di Andrew Lloyd Webber senza dimenticare il graffiante monologo di Gaber e Luporini in cui il Signor G incontrava Gesù.

“Per l’album La buona novella – ha raccontato Fabrizio – mi sono ispirato ai Vangeli Apocrifi. Scelsi i Vangeli scritti da autori armeni, bizantini, greci, perché erano una versione laica della storia di quell’eroe rivoluzionario che era Cristo che predicava la fratellanza universale. Solo che Marco e gli altri erano un po’ l’ufficio stampa, gli Apocrifi invece vanno a ruota libera. I Sinottici risentono dell’influenza del Vecchio testamento. Negli altri c’è più umanità”.

L’avesse scritta oggi La buona novella, Fabrizio avrebbe optato forse per un respiro teatrale, seguendo scelte già seguite da altri cantautori. Nel 1970 era già rivoluzionario un album di canzoni a tema. L’opera, dunque, è concepita come una sorta di Cantata barocca, scarnificata.

E Gallione nella sua rilettura ha attualizzato il lavoro di Faber, appunto ponendolo in scena e costruendo intorno alle canzoni un testo che si ispira agli stessi Vangeli apocrifi dai quali era partito il cantautore genovese.

La scena di Marcello Chiarenza è efficace nella sua semplicità, con una capanna stilizzata e una serie di elementi che calano dall’alto per scandire alcuni momenti della narrazione.

Protagonista è Neri Marcorè, splendido attore, la cui voce, calda e profonda, ricorda quella di Faber. E intorno a lui agiscono l’ottima attrice Rosanna Naddeo e un impeccabile gruppo di musicisti: Giua (voce e chitarra), Barbara Casini (voce, chitarra e percussioni), Anais Drago (voce e violino), Francesco Negri (pianoforte), Alessandra Abbondanza (voce e fisarmonica).

Una sottolineatura meritano naturalmente gli arrangiamenti di Paolo Silvestri che ha fatto un eccellente lavoro utilizzando pochi strumenti (pianoforte, violino, chitarre, fisarmonica e percussioni) e lavorando soprattutto sulle voci: non ci sono solo i solisti, ma il coro (così importante in Faber) accompagna, commenta, fa da sfondo creando atmosfere sonore particolari.

Il pubblico ascolta così alcune canzoni fra le più belle di Faber come Il sogno di Maria, o Ave Maria o ancora Maria nella bottega di un falegname.

Un grande affresco corale, insomma, in cui tutti hanno partecipato con successo ora al racconto, ora al commento musicale.

Repliche fino a domenica.