Platea affollata martedì sera, assai meno ieri. Applausi calorosi alla parte musicale, qualche deciso fischio, martedì, alla regia. Questo il bilancio della “due-giorni” con cui il Carlo Felice ha presentato il proprio originale progetto di Norma.
L’opera di Bellini, infatti, (che avrà ancora altre quattro repliche) è stata presentata in due diverse edizioni che divergono soprattutto nell’attribuzione dei due ruoli femminili.
Norma e Adalgisa, questione di registri
Quando l’opera debuttò nel 1831 la parte di Adalgisa era affidata a Giulia Grisi (che quattro anni dopo avrebbe vestito i panni di Elvira nei Puritani): una vocalità angelicata, timbro chiaro, adatto a restituire l’immagine della sacerdotessa giovane, ingenua, in preda alla passione amorosa. Nel ruolo della protagonista c’era invece Giuditta Pasta, in origine classificata come contralto, poi spostatasi verso l’acuto senza mai abbandonare però personaggi come Tancredi o Cenerentola.
In fase successiva, con il progressivo affermarsi del registro di mezzosoprano, si è cominciato a introdurlo in sostituzione del secondo soprano, alterando tuttavia i caratteri dei personaggi: più chiara e acuta la protagonista (dal piglio ben più drammatico e energico), più scura e tenebrosa Adalgisa in contrasto con il proprio ruolo.
“Il problema – ha piegato Riccardo Minasi, direttore musicale dello spettacolo e autore con Maurizioo Biondi della revisione critica della partitura – è che non abbiamo più la vocalità dell’epoca. Allora c’erano voci “anfibie”, voci con una marcata differenza fra registro di testa e di petto: una tecnica che oggi non utilizza più nessuno”.
In questi ultimi anni il problema è stato affrontato in diverse edizioni. Fra le tante si cita la registrazione Decca del 2013 con Cecilia Bartoli, mezzosoprano doc, nel ruolo di Norma e il soprano Sumi Jo in quello di Adalgisa.
La doppia Norma genovese
Il Carlo Felice dunque ha proposto una doppia soluzione: in un caso, Norma mezzo e Adalgisa soprano, nell’altro Norma soprano e Adalgisa mezzo.
Dopo aver ascoltato le due recite, la nostra preferenza va a Norma più scura e Adalgisa più cristallina: timbri più adatti a rendere da una parte più compiute le loro personalità, dall’altra atti ad assicurare un maggior peso drammatico ai duetti che costituiscono fra i momenti più alti del lavoro belliniano.
Artefice principale dell’operazione, come si è già detto, è stato Riccardo Minasi .
Minasi ha restituito un Bellini estremo: fortemente passionale negli scatti drammatici e guerreschi, persino con qualche eccesso nelle dinamiche dei fiati; e liricamente contenuto nelle tante pagine nelle quali si impone la cantabilità intensa e poetica del grande compositore catanese.
I cast selezionati per le due versioni sono risultati entrambi di buon livello. Il mezzosoprano Vasilisa Berzhanskaya (pianissimi di indubbia efficacia espressiva) e il soprano Gilda Fiume hanno condiviso la parte di Norma, entrambe facendosi apprezzare per vigore e intensità interpretativa. Inutile dire che la celebre “Casta diva” ha entusiasmato il pubblico in tutte e due le sere. Persuasiva e autorevole Carmela Remigio nel ruolo di Adalgisa poi affidato la sera successiva al giovane mezzo Anna Dowsley, voce duttile e sicura, bella presenza scenica, una piacevole scoperta. Stefan Pop è stato un generoso Pollione esuberante nella prima parte, ma poi capace di apprezzabili morbidezze nel prosieguo della recita. Generosa, con qualche durezza, anche la prova del secondo Pollione, Antonio Corianò. Completavano il cast Alessio Cacciamani e Mariano Buccino (Oroveso), Simona Di Capua (Clotilde) e Blagoj Nacoski (Flavio).
Bene coro(direttore Claudio Marino Moretti) e orchestra.
La regia
Non ce ne voglia Stefania Bonfadelli, artista che stimiamo e che in passato abbiamo apprezzato come eccellente cantante, ma la sua regia ci ha lasciato alquanto perplessi.
L’idea di base era interessante. Avvalendosi di una scena (a firma Serena Rocco) spoglia con un piano inclinato e alcuni pannelli mobili atti a delimitare il proscenio, la Bonfadelli ha immaginato un doppio livello narrativo: in primo piano i cantanti, nel fondo i mimi e i coristi a dar vita a un’azione integrativa. Alcuni momenti hanno pienamente convinto sul piano visivo: grazie ad un attento utilizzo delle luci, si sono ad esempio creati efficaci e suggestivi “Tableaux vivants”. Ma, in generale, la lettura non ha funzionato per almeno due ragioni: intanto l’insistenza su azioni di battaglia è risultata alla lunga ripetitiva e distraente; in secondo luogo al dinamismo eccessivo retrostante faceva spesso da contrasto l’immobilismo dei personaggi quasi fossero avulsi dal contesto, calati in una esecuzione quasi oratoriale. Non ha convinto poi l’idea (ricorrente nelle regie odierne) di attualizzare sul piano temporale l’epoca: mettere costumi novecenteschi, munire i romani di pistole, mostrare stupri e violenze per ricordare che è in corso una guerra, ci sembra francamente inutile.
Infine, tralasciando l’epilogo con Norma che pone fine alla vita di Pollione e sua non sul rogo ma con un coltello un’ultima osservazione sull’apertura in cui come spesso accade la Sinfonia è diventata pagina illustrativa di un’azione violenta e confusa. In un suo bel libro di qualche anno fa (La musica sveglia il tempo) Daniel Baremboim scriveva una riflessione assolutamente condivisibile: “Molti registi fanno alzare il sipario appena inizia la musica, opponendosi alla separazione fra orecchio e occhio, mentre tale separazione in realtà è parte essenziale del processo: prima la percezione dell’orecchio, poi quella dell’occhio.”